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la mia trinità maschile
Ho sognato che io, Marco, Giovanni, mia madre e mia zia andavamo in un prato bellissimo, lucido di verde.
C’era un sole fantastico, il cielo era azzurro.
Noi donne eravamo vestite di chiffon, con grandi cappelli a larghe tese, come se dovessimo andare a uno di quegli eventi mondani anglosassoni dove ci sono cavalli e affini.
Prima di celebrare quest’evento festoso che non sapevamo quale fosse, dovevamo però salutare meglio mio zio, il fratello di mia madre morto da poco, perché non eravamo soddisfatti di come l’avevamo salutato.
Allora un tale vestito in modo grottesco, come un cameriere sulla scena di una commedia, e truccato di nero sugli occhi, con le guance fucsia-rosse dei clown, ci ha portato la bara.
Gli era leggera, tanto che l’ha messa verticale senza sforzo davanti a noi.
Sul coperchio c’era una statua a grandezza naturale. Mi ricordava le cose etrusche, solo che questa statua era distesa sulla schiena.
Ha cominciato a guardarci muovendo gli occhi qua e là.
Poi ho realizzato che era tutto il volto a diventare espressivo, con la stessa concentrata e allegra lentezza con cui mio fratello – handicappato – comincia uno dei suoi lunghi sorrisi di affetto quando ci vede.
Il volto, come imprigionato in una fissità necessaria, è diventato luminoso.
Mi dava l’impressione che mio zio diventasse sempre più lieto, sempre più benevolo, sempre più indulgente.
Senza parlare diceva «lo so che avevate ragione, quando mi dicevate che non dovevo affrontare le cose così di petto e io mi arrabbiavo; so che dovevo essere più gentile con me stesso».
Che sguardo felice di vederci, e sereno, e paterno.
A un certo punto quella statua si è manifestata anche come mio padre, che è morto quando avevo 18 anni.
Non so che cosa mi ha fatto pensare che «contenesse» anche mio padre; ma c’era anche lui.
Era la mia trinità maschile, insomma.
Mio padre.
Mio zio, che mi ha portato non all’altare perché non mi sono sposata in chiesa, ma alla stanza del municipio dove mi aspettava Marco.
Mio fratello, l’unico dei tre vivo; una persona per la cui vita ho temuto fin da quando lui è nato, quando avevo cinque anni e un po’.
La mia trinità maschile di vivi-morti.
Il mio passato, porzione maschile.
Chissà qual è la cosa con cui sto facendo i conti inconsapevolmente.
Chissà perché questo sogno l’ho fatto a Dublino, che evoca la parte femminile e materna di me e della mia storia.
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