a teatro (oscar, il corpo e le ragazzine)

Loro l’avevano anche detto – spegnete i telefoni, asini – e io l’avevo fatto.
Solo che il mio telefono è l’unico al mondo a non funzionare come sveglia quand’è spento (d’altra parte quando c’è un marito bisogna dire che la sveglia è uno spreco inutile di denaro), ma a funzionare come «ricordatore» sonoro (sottolineerei sonoro) di appuntamenti anche quando:
a) è spento;
b) prima di spegnerlo è stato silenziato.

Questo per dire che quando la musichetta ha cominciato a farsi sentire – verso la fine del primo atto – un po’ di gente, nel teatro, s’è girata verso di me. Se solo hanno realizzato che avevo qualcosa di italiano avranno di certo pensato che ci facciamo riconoscere dappertutto.
La cosa ridicola è che il telefono suonava per ricordarmi che questa mattina alle 12 sarei dovuta andare alla mia solita lezione di inglese.
Che ovviamente avevo disdetto con un bell’anticipo perché son venuta in Irlanda a prendere lezioni di inglese a scuola ma anche per strada e a teatro e all’Irish Writers’ Centre e al Projects Arts Centre e a casa di Rosemary e nei negozi.

Comunque.
Ieri sera sono andata a vedere The Importance of Being Earnest di Oscar Wilde al Gaiety Theatre.
Se occorre l’indirizzo, è in King Street, mi pare.
Meno male che avevo letto il libro da poco, sennò avrei capito meno del necessario.
Mi sono divertita moltissimo.
Non ho nessuna esperienza di recitazione in inglese, ma gli attori mi son sembrati bravi, e anche fisicamente capaci di occupare la scena senza quella specie di attitudine stentorea che a volte mi è capitato di vedere.


In sala c’era di tutto, comprese alcune bionde ricoperte di raion leopardato e cionondimeno convinte di essere estremamente raffinate, e altre bionde che, un po’ meno preoccupate della loro eleganza, sorseggiavano birra da bicchieri di plastica da mezzo litro.
Dei rutti non saprei dire, perché la sala era rumorosa; perciò mi astengo.

Ho preso il programma di sala, scoprendo alcune cose interessanti.
La compagnia è una compagnia non-profit (sì, esattamente: non profit) finanziata dallo Stato e dalla municipalità, oltre che da alcuni patroni del calibro della scrittrice Sheila O’Flanagan e del suo collega Colm Tòibin.
Dal 1984 a oggi hanno messo in scena decine di spettacoli.

L’ultima pagina del programma dice: «L’arte e la cultura giocano un ruolo vitale nella nostra economia; e investire in cultura, in modo intelligente, il denaro derivante dalle tasse è una cosa per la quale si riceve in cambio una contropartita moltiplicata».
Si calcola che «l’industria del turismo culturale» valga «2,4 miliardi ogni anno»; l’investimento pubblico in arte e cultura è stato per il 2010 pari a 69,15 milioni: «meno di un euro alla settimana per ognuno dei proprietari di case» del Paese.

Nel libretto ci sono le biografie di tutti: attori, regista, tecnici di scena, compositore della musica, tecnico delle luci, costumista, scenografo, assistenti del suono… Tutti. Che è un bel modo per far capire cosa c’è dietro una produzione.

L’attrice che interpretava Lady Bracknell – personaggio fantastico, ma in realtà sono tutti così ben disegnati da non riuscire nemmeno a capire chi sia il vero protagonista – si chiama Stockard Channing, ed è figlia di un americano e di un’irlandese. Il suo curriculum è lunghissimo. È stata anche candidata all’Oscar.

La sensazione che ho avuto è che molta della gente che era lì non avesse mai letto il libro, così come noi quando magari andiamo a vedere – che so – una commedia di de Filippo; e che fosse uno spettacolo assolutamente popolare.
Bello come solo certe cose sanno essere, perché leggibile a molti diversi livelli.
C’è l’irlandese del 1854 che prende in giro la vacua grandeur britannica; c’è l’intellettuale che si fa beffe di critici e letterati; c’è la presa di distanza dal senso comune; c’è l’astuta condiscendenza finale verso il moralismo; c’è il gusto del gioco di parole, del nonsense, del disorientamento dello spettatore; c’è la velocità scoppiettante dei dialoghi; c’è la satira di costume; c’è la dissezione di una società classista e idiota, vuota e vanesia, sciocca e inconcludente.

E – sopra ogni altra cosa – c’è la gioia di chi riesce a non prendersi sul serio perché scrivendo quel che ha scritto si è veramente divertito.
Io me l’immagino – e non so niente, magari sbaglio e ci sono migliaia di pagine di epistolari su quanto difficile è stato scrivere questa commedia – mentre scrive e ride. Oscar, dico.
Dovrei dire Wilde, lo so.
Ma quando l’altra sera ho detto alla sorella di Rosemary che sarei andata a vedere «L’importanza di chiamarsi Ernesto», lei ha detto «ah, sì, Oscar…».
Oscar.
That’s it. Tutto qui.

Quando son tornata, Rosemary è venuta a prendermi alla fermata della Luas (pioveva ed era tardi). E quando son salita in camera ho trovato che ad aspettarmi nel letto c’era una borsa d’acqua calda con il suo bel vestitino di pelo sintetico fucsia, quasi in stile Ann Summers, oserei dire.
Che cosa carina.

Peccato solo che domani alle otto e un quarto di mattina arriverà un tale che porterà via tutti i mobili di una delle stanze di questa casa e poi toglierà la carta da parati e ridipingerà tutto.

Infine. Consiglio a tutti di farsi un giro a Dublino solo per guardare le ragazzine.
È fantastico.
Hanno criniere micidiali (secondo me son parrucche), maquillage sensazionali, vestono con gonnine mignon e pantacollant (lo so che adesso si chiamano in un altro modo, ma al momento non mi viene) strappati e bucati. Hanno unghie lunghe in tre dita e mangiucchiate nelle altre due. pelli bellissime ma volti completamente destrutturati, come se non avessero troppe ossa a parte il naso e la fronte.

Vogliono sembrare delle maliarde, eppure le guardi in faccia e vedi che sono delle bambine che si mettono a ridere per niente.
Mica cercano ragazzi. Non ne hanno l’aria, perlomeno, né il fisico del ruolo.
Se per caso accavallando le gambe in autobus le sfiori e chiedi scusa, loro ti guardano piene di ritrosia e non dicono neanche «non fa niente». Ma non lo fanno per stronzaggine; è come se nessuno gliel’avesse insegnato; è come se vivessero in una bolla spazio-temporale.

Si vestono così perché il Texas è vicino, forse.
Perché nei quiz in tivù si vestono come loro.
Perché per diventare adulte si passa per di lì.
Ma non c’è coscienza del corpo, della propria materialità.
Il corpo è incidentale; è il supporto irrilevante della propria «manichinità» esistenziale.
In fondo è successo a tutte noi, credo; chi vestendosi in un modo chi in un altro, abbiamo sempre, da ragazzine, usato il nostro corpo come se fosse un attaccapanni. No: un «attacca-identità».

Uno si domanda «ma la mamma non dice niente, quando le vede uscire così sistemate?».
Ma poi ti rendi conto che non ha senso farsi queste domande. Non solo non ha senso in termini generali, ma ancora di meno ne ha quando hai a che fare con una cultura diversa dalla tua e con un’età diversa dalla tua o di quella di cui i tuoi figli ti consentono di fare esperienza.

Non so.
C’è qualcosa di sublime in una ragazzina che con pochi mezzi cerca di essere ciò che non è né sarà mai, e lo fa senza rendersi strumento sessuale perché il suo corpo non lo vede neanche (tant’è vero che questa cosa la fanno belle e brutte, ciccione e smilze, alte e basse).
C’è qualcosa di sacro nell’idea che quando si è ragazzine si può recitare una parte e sognarsi cantantesse di successo, attrici, showgirl, sapendo perfettamente che si vive in un posto di merda, in una casa di merda, con genitori senza possibilità, e che quindi niente di tutto questo si avvererà mai.

Son da guardare, queste ragazzine che sognano sapendo perfettamente che non andranno da nessuna parte e che l’unica finestra di opportunità che hanno per sognare è questa, e che si fotta il mondo.