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giornalismo 2.0: nasce il lavoratore non profit
La retorica intorno al giornalismo 2.0 – chissà, poi, se lo chiamano veramente così – e gli inni alla modernità giornalistica mi risultano estremamente irritanti.
Quello che c’è nella piccola foto che illustra questo post è il titolino che la homepage di Repubblica riserva al festival del giornalismo di Perugia.
E io ho una domanda che è solo apparentemente capziosa: come può il giornalismo essere non profit?
Io, giornalista professionista – oltre che una donna che per vivere ha bisogno di un reddito – sono una donna che percepisce un salario in grazia di un contratto di lavoro che quotidianamente onora.
Il reddito di un lavoratore giornalista – dipendente oppure collaboratore di un’azienda editoriale – non è in nessun caso un «profitto».
È – appunto – reddito da lavoro.
Non riesco francamente a comprendere come si possa considerare positivo un giornalismo che – al di là della qualificazione del reddito come profitto, sulla quale posso oggi perfino essere magnanima – non dà remunerazione a chi lo «produce».
Penso che una delle condizioni necessarie ma non sufficienti a concepire una simile idiozia sia una grave carenza di intelletto.
Mi si obietterà che chi ha scritto il titolo intendeva parlare di «editoria» non profit, e non di «giornalismo» non profit.
Può essere, sì.
Però c’è una grande differenza fra l’editore e il giornalista, e un uso così sconsiderato delle due parole, giudicate sostanzialmente intercambiabili, può solo essere un lapsus che rende immediatamente chiaro quanto forte – dietro la maschera del «che bello il giornalismo del terzo millennio», «che meraviglia il giornalismo partecipativo», «che bella la nuova frontiera dell’informazione» – sia l’equivoco fra editoria e giornalismo.
O, detto in altri termini, quanto solido l’equivoco fra lavoratore e imprenditore.
O infine, sintetizzando in modo diverso e spingendosi un po’ in là, quanto in profondità abbia scavato il corpo sociale la considerazione – per me ideologica, falsa, fuorviante e classista – secondo cui gli interessi del padronato coincidono con gli interessi dei lavoratori.
Editore è chi ci mette i soldi.
Giornalista è chi cerca, scrive, organizza e gerarchizza le notizie.
Quanto si vende di quel «prodotto» che egli contribuisce a creare non è un problema suo, se non attraverso la mediazione sindacale (e anche qui avrei qualcosa da dire, perché per esempio io sono contraria ai premi di produzione legati all’andamento dell’azienda).
Il rischio d’impresa è altrui. Segnatamente, dell’editore.
Solo un’impresa può essere non profit.
Un lavoratore non profit o è ricattato o è un coglione.
O un coglione ricattato.
Esistono, eh.
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