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il cuore in ombra
Ho appena finito di leggere l’ultimo romanzo di Maria Stella Conte, «Il cuore in ombra», Baldini Castoldi Dalai.
La sensazione più nitida che me ne è rimasta è la perplessità.
La storia c’è, e ha fascino e appeal.
È la vicenda sentimentale e sessuale di una donna la cui madre, abbandonata dal marito, s’è ammazzata proprio dopo che lei, la figlia, l’aveva incitata a farlo, in un accesso d’ira, o forse solamente di dolore.
La protagonista, che si chiama Qu, sta con una ragazza che si chiama Brina, e contemporaneamente col fratello di Brina, Sebastian, sposato e impotente ma capace di relazione sessuale solo sotto le condizioni estreme a cui Qu lo introduce.
Nella storia c’entra anche un padre.
Alla fine, nell’ultima linea, compare un io narrante che non riesco a collocare, nemmeno mettendolo in relazione al personaggio della ragazza con la frangia e la pelle lunare (sarà forse il doppio di Qu?).
Da un certo momento in poi, la dinamica narrativa crea un’attesa di tipo noir, e quest’attesa, bella, spinge alla lettura.
Fra le cose migliori, la disamina dell’amore ricattatorio e dello scambio dei ruoli fra vittima e carnefice; è resa a tratti con vera maestria, profondità e leggerezza, come nel biglietto che la madre di Qu lascia alla figlia prima di gettarsi dalla finestra:
«Non ho paura di morire, Qu. Io ero già morta.
Solo che tu, cocciuta come sei, non volevi rendertene conto ed è stato questo a non farci intendere per quasi quattro anni: desideravi sopra ogni altra cosa resuscitarmi e non mi davi, non ti davi pace.
(…)
«Avevo un solo unico grande desiderio: che mi lasciassi andare, mentre il tuo immenso e accanito e irragionevole amore di figlia continuava a trattenermi dove non volevo, mi condannava a restare dove il mio cuore si sentiva prigioniero.
(…)
Per il resto, Qu, se gli anni che abbiamo vissuto insieme non fossero bastati per dirci le cose che davvero contano, allora non c’è più nulla che io possa aggiungere ora».
La mia sensazione è che questo libro sia una bozza di lavorazione, un nucleo da cui trar fuori pasta e sensi sia per sottrazione che per addizione.
Ci sono alcune piccole stranezze nella punteggiatura (domande trasformate in esclamazione, per esempio), alcuni refusi, e anche un paio di errori piuttosto gravi che non so spiegarmi e onestamente non addebiterei a Maria Stella Conte.
Come questo errore di concecutio temporum (che, a pagina 62, introduce con un congiuntivo trapassato anziché con il condizionale passato – avrebbero dovuto – il rapporto di posteriorità in una proposizione subordinata dipendente da una principale al trapassato prossimo):
Ne avevano discusso a lungo, lacerandosi nell’incertezza se, nel primo compleanno della madre dopo la separazione, avessero dovuto o no appropriarsi di una tradizione da sempre prerogativa esclusiva del padre.
Qua e là ci sono incongruenze narrative che a me sono sembrate piuttosto evidenti, come qui, alle pagine 188-189, dove Brina, amante di Qu, parla col proprio fratello Sebastian (a propria volta amante di Qu senza che Brina lo sappia) del suo dolore per come vanno le cose con Qu; la fluidità di questo passo, incidentalmente, è un po’ bloccata dalla punteggiatura.
«È un casino Sebastian, un gran casino… La sto perdendo, forse l’ho già persa!».
«Perché? Per quale motivo? Spiegati!»
«Non lo so! Questo è il punto! Sento che si sta allontanando, sento che mi sta sfuggendo ma non ne so la ragione, e se non ne so la ragione come faccio a trattenerla, come faccio a rimediare?».
«Brina, calmati… Non è la prima volta che hai sensazioni del genere, eppure non è mai successo niente… Ragioniamo ok? Andava tutto abbastanza bene mi sembra, salvo le solite discussioni… Ricordi? Ne abbiamo parlato sere fa, in auto, sotto casa tua. Tu eri piena di buoni propositi… eri fiduciosa. Poi cosa è accaduto?».
(…)
«Il punto è che Qu (…) non vuole più saperne di me. Da quando è uscita con l’amico del padre si rifiuta di vedermi, di parlarmi, di darmi la possibilità di spiegare… non viene più in galleria, non risponde al telefono, non risponde al citofono, non so neanche se sia in casa oppure no, so solo che nessuno apre… Le ho provate tutte tutte tutte! Fiori, lettere, messaggi… È come se fossi morta per lei, come se fossi diventata un fantasma…».
Come tutto questo quadretto circostanziato di evidente distacco sostanzialmente già consumato e definito possa essere ridotto alla descrizione di una mera sensazione generica e confusa («Sento che si sta allontanando») a me sfugge.
E non è che il fratello, subito dopo, le dica una cosa come «ma Brina! Non ti sembrano, tutti questi, indizi ben chiari e tutti univoci? Perché parli di “sensazione”?».
I personaggi, poi, non si fanno né amare né odiare.
A cominciare dalla scelta dei nomi – da Quasar a Brina – per finire alla scultura dei caratteri, sono figurine in bassorilievo di cui non sono riuscita a cogliere dimensione tragica o – come potrei dire? – borghese.
Il personaggio meglio riuscito è probabilmente la madre suicida; e anche Qu diventa alata e rotonda quando si rapporta con lei; quasi che, a dispetto dell’apparente centralità della figura del padre, il filo del romanzo intenda invece indirizzarci altrove.
Splendide, per esempio, le pagine 98-103, di cui riporto qualche passaggio (con un esclamativo al posto di un interrogativo, in effetti; e un certo numero di virgole in meno):
«Avrei potuto scegliere tante vite diverse, invece ho scelto vostro padre, ho scelto voi. Non ti sembra abbastanza? Ti preoccupi per te! E io allora? Che dovrei dire io? Almeno tu sei giovane: non temere, Qu, ne hai ancora di tempo davanti per vivere la tua vita e per viverla come ti pare…».
«Mamma… mamma ma ti accorgi di come mi stai parlando?».
«Certo che me ne rendo conto! Sei tu, siete voi che non vi accorgete dell’inferno nel quale mi trovo…».
«Ah sì? E allora perché mai starei qui io? Perché farei quello che faccio? Cosa vuoi sentirti dire, mamma? Che mi dispiace? Sì, mi dispiace! Mi dispiace da morire per te, per la tua vita, per tutto… ma non ho la bacchetta magica: non posso farti avere di nuovo vent’anni, non posso far tornare indietro papà… Dimmelo mamma: che ti ho fatto per essere trattata tanto male? (…)
Davvero la mia vita è così priva di valore e la vostra tanto piena di significato?»
(…)
«Ricordi quando da piccolina mi facevi il gioco delle pecorelle?… Che bella pelle hai, sembra di seta… certo però che se ci pensi è dura! Fino a un certo momento della vita tutti quelli che ti amano stanno lì a toccarti, sbaciucchiarti, accarezzarti… poi a un certo punto nessuno, neppure chi ti vuol bene, lo fa più, come se le guance, i caplli, le labbra di chi ha una certa età fossero radioattivi… Non riesco a immaginare quanto debba soffrire una persona anziana di questa assoluta mancanza di contatto fisico, di questa assenza di linguaggio affettivo, il primo che gli» (gli? Le! Si riferisce a «persona anziana, femminile, ndr) era stato insegnato, il solo…».
(…)
«Non c’è bisogno che strilli, Qu. Ti sento benissimo».
«(…) Strillo perché non hai alcun diritto di minacciarmi con il tuo ipotetico suicidio un giorno sì e uno no. Ma come pensi che dorma temendo di entrare qui al mattino e trovare te morta su questo cavolo di divano! Mamma ma tu ci pensi alle cose che dici? Tu ci pensi qualche volta a me?».
In generale, m’è sembrato che i dialoghi siano forse la cosa francamente meno indovinata del romanzo: frasi lunghissime, vocativi del tutto improbabili come alcuni «chicco di riso» pronunciati durante discussioni troppo accese per lasciar spazio così facilmente all’ammorbidimento sentimentale, o un «fratellino» che stride col contesto come se fosse la traduzione dall’americano dell’inciso di una sit-com.
Poco credibile ai miei occhi (ma può essere un problema mio, non faccio difficoltà ad ammetterlo) il personaggio del padre che osserva col binocolo la vita della figlia abbandonata tanto tempo fa e poi le scrive lettere e poi la incontra e poi si fa abbindolare.
Mah.
Ha quasi settant’anni ma parla come un uomo senza età – tranne nella descrizione, molto bella, di quando a cinquant’anni comincia a vedere il suo corpo cambiare – e a volte si lascia prendere la mano da qualche impennata poetica che a me è parsa gratuita come «erano i tuoi giorni di ossidiana nera».
Bellissima la dedica:
«ai nemici veri senza i quali nessuno avrebbe la rabbia necessaria»,
e bellissimo l’esergo di Emily Dickinson:
Avessimo saputo che carico portava
avremmo alleviato il suo terrore –
ma per il peso ancora più diritta
lei camminava – suo dunque l’errore
Credo che Maria Stella Conte, giornalista di Repubblica, sia una donna piena di cose da dire, e piena di energia.
È una donna che mi piacerebbe conoscere; con cui vorrei parlare dell’ambiguità del dolore.
Forse potrei capire meglio il suo terzo romanzo, che in parte mi ha delusa.
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