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io, j.lo. e i ricchi e poveri
A New York avevano Jennifer Lopez. A Verona c’erano i Ricchi e Poveri.
La dimensione italiana del provincialismo è un cappio che a poco a poco, giorno dopo giorno, si stringe sempre di più intorno al mio collo.
Ma non è che mi interessa la metropoli in se stessa, o il cosmopolitismo. Forse non sarei nemmeno in grado di reggere la complessità, la zerificazione di me in un contesto così eterogeneo.
Magari troverei un mio spazio, invece; non so dirlo; e non so neanche se il problema sia lì.
Il fatto è che noi e i nostri vestiti firmati, noi e l’asfissia dei nostri ragionamenti, noi e la mancanza d’ossigeno – vera e metaforica – delle nostre città, noi e l’incapacità di riconoscere identità al diverso se non per sottrazione, noi e l’incresciosa supponenza dei nostri pusillanimi leaderini culturali, noi e la ridicola aspirazione al «successo» dei nostri sedicenti intellettuali asseritamente non omologati, noi e i nostri eroi dappoco, noi e l’inettitudine ad elaborare e ad esprimere pensiero collettivo, noi e i nostri miseri orizzonti…
Il fatto è che noi fatti così, insomma, stiamo vivendo un’orribile transizione in cui non sappiamo più se abbia un senso la nostra vecchia idea di famiglia patriarcale o matriarcale (qui la differenza non fa differenza), se abbia un senso farsi carico dei nostri vecchi, della progressiva minuscolizzazione e monotematizzazione del loro mondo, del loro e nostro disorientamento generazionale.
Non sappiamo più se, da donne, ha senso lavorare, andare al lavoro, per costruire pezzi di mondo che fanno comodo agli altri, e non a noi; senso diverso da quello di poter guadagnare quel che serve non a vivere, ma a vivere così.
Non sappiamo più se ha senso combattere per affermare il nostro diritto di lavorare o arrenderci alla marea della nostra rinascente subalternità, per occuparci – nella distrazione del mondo – di qualcosa che abbia a che vedere con le nostre ragioni e i nostri desideri un po’ di più di quanto abbia a che vedere con noi quell’immonda guerra fra scarafaggi da cesso a cui siamo costrette sul lavoro.
Non sappiamo se parlare o tacere.
Se dire che J.Lo. sarà J.Lo. e i Ricchi e Poveri i Ricchi e Poveri, ma entrambi i soggetti sono merci che qualcuno mette in vendita per far tacere il nostro cuore: il cuore dei miserini e quello dei cosmopoliti.
Non sappiamo che senso dare alle nostre famiglie: sono luoghi in cui stiamo bene, creati con persone che abbiamo scelto e nessuno ci ha imposto, e vigono regole che abbiamo contribuito a costruire; ma ci ricordiamo bene di qualcuno che ci parlava della repressione esercitata dalla famiglia, e abbiamo paura di far del male ai nostri figli.
Vogliamo che diventino autonomi e abbiamo paura della solitudine in cui ci lasceranno.
Non ci piace ciò che chiamavano il riflusso al privato, ma è l’unica cosa che ci è stata lasciata a disposizione, e pure in piccole dosi, quelle non rosicchiate dal lavoro e dalle incombenze totalizzanti di giornate sorde e cieche in cui ci basta solo arrivare a notte.
Terreno sottratto da sotto i piedi.
Parole nuovamente ingoiate per la consapevolezza desolante della loro manifesta inutilità.
Eppure dobbiamo correre, scalare le montagne che abbiamo dentro e quelle che ci si parano davanti, là fuori; portare da soli il peso struggente della miniaturizzazione delle nostre madri e dei nostri padri che non hanno comunità familiare che non sia costituita da noi; portare la responsabilità dei nostri figli.
E noi – parlo come frammento di un genere sessuale, ma è possibile che tutto questo valga anche per un uomo – arranchiamo in salita a fare le donne le lavoratrici le madri le mogli le compagne le amanti le zie le figlie le sorelle le intellettualine le belle le sane le grandi le piccole le spiritose le serie le forti e le fragili le scrittrici le conducenti le controllore le vigilesse urbane le custodi della magia della vita le streghe le seduttive le magre le tonde le serene le benevole le aggressive le accoglienti le maschie le femmine le neutre le spesine del carcere…
J.Lo. mi dice «sii femmina, sorella».
I Ricchi e Poveri mi dicono «ricordati dei tuoi» (i miei li han sempre detestati, ma non importa: i simboli son simboli).
Bossi, Berlusconi, e tutti questi satiri che danzano intorno al cadavere di un Paese putrescente mi dicono, senza volerlo, che non posso stare ferma e lasciare il mondo in mano a gente come loro.
Ma la mia parola non ha senso, nonostante il lavoro che faccio; e forse non ha senso proprio per il lavoro che faccio, che crea solo rumore.
La mia azione non ha senso.
Ho troppe cose da fare, troppi pezzi in cui dividermi.
Troppe identità fra cui rimbalzare.
E nessun luogo, nessun tempo in cui ritrovare la mia unità, la mia unicità, il senso di ciò che desidero con le fibre fisiche di me: gli unici desideri – e qui cito molti – di cui non mi è lecito dubitare perché appartengono al mio corpo.
Nessun luogo a parte il cottage del sogno, nel blu notturno e ventoso della campagna irlandese, con le gocce di mare e l’arpeggio silenzioso della pelle.
ciao Federica, mi hai trasmesso o fatto accendere questo fiatone da rincorsa continua -e stanotte sognavo di essere ad una faticosissima corsa campestre, complicata e piena di persone, che io, boh, dovevo assolutamente vincere.
A volte penso che sia questo IO a cui facciamo riferimento, in cui andiamo a depositare le cose che succedono, in cui teniamo aperto un conto per la conservazione dei ricordi, ecco magari è questo IO (questo movimento che facciamo verso di esso) la materia prima di tutto il malessere, principio e fine delle cose, continuità nel tempo e nello spazio, negli amori, nei dolori. Nel ricordo degli altri. Un po’ come questa neve che cade e verrebbe voglia di stare svegli tutta la notte a guardala mentre ricopre tutto. Tutto lo schermo ovviamente.
v
Una sola parola: bello.
Grazie.