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una partita col corpo
Domenica pomeriggio sono andata con mio figlio a vedere una partita di serie A2 femminile di pallavolo.
Sono rimasta molto impressionata dall’incredibile bravura delle giocatrici, soprattutto nei fondamentali che una volta si ritenevano prerogativa maschile, come gli attacchi, i muri e le battute al salto.
Se questo è il «movimento» pallavolistico, non mi stupisco che la nazionale femminile stravinca in campo internazionale.
Ma appena al di sotto di questi pensieri superficiali – e accanto al piacere profondo di essere con mio figlio a vedere una partita dello sport che così tanto ha significato per me – una corrente di struggimento e di malinconia ha percorso le mie fibre più nascoste.
Mi sembrava che nei miei muscoli e nel mio corpo quei movimenti che vedevo fare alle atlete fossero ancora impressi come un’indelebile memoria di automatismi indimenticabili.
Un’alzatrice palleggiava, e io mi sentivo palleggiare.
Una seconda linea riceveva, e io sentivo il pallone che colpiva le mie braccia, e le mie gambe piegarsi per ammortizzare la violenza del colpo.
Una contesa a rete, e io sentivo il pallone tra le dita, ne apprezzavo sul palmo la curvatura e la consistenza.
Sono stati attimi di smarrimento, perché era come se non riuscissi a comprendere fino in fondo che il tempo era passato.
Ero ancora undicenne, o ventenne, nel rumore di una palestra, con la suola delle mie Tiger che faceva attrito sul parquet o sul linoleum, con le ginocchiere che stringevano un po’ ma in un modo così inevitabile e naturale che me ne accorgevo solo a partita finita.
Guardavo quelle atlete e non riuscivo a dar loro un’età.
Non perché non fosse evidente che avevano più o meno una ventina d’anni (erano in quel giro d’anni) ma perché io mi vedevo in loro ed ero io quella a cui mancava un’età.
Mi vedevo dentro quei movimenti, capace di quei movimenti, con quel corpo, con quella struttura e quella elasticità, ma in qualche cassettino della mia consapevolezza io sapevo – e non volevo sapere – che quegli automatismi e quella specie di carica a molla, quella resistenza agli urti e all’usura intensiva, lasciato quello sport da tanti anni, io non ce li ho più.
Eppure, me li sentivo dentro, e sulla pelle, e nei muscoli.
Che sensazione.
(Foto Liborio e Matteo Piancastelli, da qui)
Poesia. Bella poesia e poi la palla a volo rimane un bellissimo sport.
Un po’ dolorosetta, come poesia…
Chissà se senza il dolore vi possa essere arte e finanché saggistica? Forse sì, nel caso della ‘saggistica’ abbiamo i libri di Bruno Vespa (e molti, troppi, similia)