il barista

Un caffè, gli dico.
Mi domanda: «Liscio, dottoressa?».
Sì, gli dico. Liscio.

Dietro la macchina del caffè, che è enorme, vedo due mani ma nessun volto né altri pezzi di corpo.

Facciamo uno, dice lui, e non a me.

No, uno e dieci, risponde la voce della donna a cui appartengono le due mani.
Ma dal primo gennaio, dice lui.
No, dice lei.
Ma è lo stesso, dice lui.
No che no l’è mia stesso, dice lei.
Lui mi guarda e abbozza, cercando con gli occhi la mia solidarietà. «Guarda come mi tratta», dice senza parlare.

L’uomo mette il piattino, il cucchiaino e la bustina di zucchero sul banco.
«La vedo stanca, dottoressa», mi dice.
Non ci siamo mai visti prima, penso.
Sono stanca, gli dico. Sono andata a letto molto tardi e mi sono svegliata troppo presto.
«E doman se ricomincia», mi dice.
Speriamo che l’anno prossimo sia meglio, gli dico.
«Ah», mi fa con un’aria scettica e pessimista.
Si nasconde per un attimo dietro la macchina del caffè dove ancora si muove quel corpo invisibile di donna ruvida e aspra.
«Mi sa che riusciranno a far qualcosa solo le grandi aziende».

È successo una mezz’ora fa, e io sto ancora domandandomi cosa gli abbia fatto pensare che stessimo parlando di economia.
Mi ha detto che mi vedeva stanca (grazie, tra parentesi), non che mi vedeva povera.
Le grandi aziende. E lui, ovviamente, si vede piccolo.
Forse quando si sta con donne che si nascondono dietro le macchine del caffè, o dietro qualsiasi altra cosa, parlare di economia diventa inevitabile. O consolante.

Sì, vedrà: ce la faranno solo le grandi imprese. Quanto le devo?
«Novanta».
Arrivederci.
»Arrivederci».