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confesso che ho sognato
Com’era strana, questa notte, la campagna irlandese.
Il buio e la luce della luna l’avevano fatta blu.
Il vento alzava onde di mare violente scomposte e confuse, somme di grandi gocce bianche obbligate da un carnefice a fare tutte in momenti diversi la stessa strada verso il cielo e poi di nuovo giù, illuse di raggiungere il centro della terra.
Un cottage.
Una donna che fa strada.
Finestre su due lati, vedo il chiarore della luna.
Il profilo di un tavolo, di qualche sedia, un mobile che riflette la luce lungo il lato lungo della casa, a destra.
Questa luce non la dimenticherò mai.
È beige, blu, grigia. Ha riflessi di tutti i blu.
Sento il fischio del vento e non percepisco minaccia.
È il mio cottage, adesso.
È di pietre.
In fondo alla stanza c’è un letto.
La donna se ne va.
L’odore del posto non è mio e non è neanche impersonale; non riporta niente alla memoria, ma non rimanda senso di estraneità.
Sono io che gli dò il mio odore.
Non sono da sola, ma non lo sapevo.
Nessuno accende la luce, non c’è niente da vedere; forse c’è da sentire e immaginare, o forse no.
Non è importante.
Ci abbandoniamo sul letto senza imbarazzo, senza stanchezza, senza progetti.
Ci abbandoniamo sul letto perché non c’è altro da fare.
Quel che accade è lento, senza parole.
Non è un trionfo, non è un rituale, non è un’esplosione.
Non è stato atteso. Non era previsto.
Non ha bisogno di spiegazioni perché spiegazioni non ce ne sono.
Nessuna luce da accendere sulle intenzioni.
Però è semplicemente bello.
È in sé, non ha aggettivi.
Non esibisce se stesso.
Non ha paura.
Non trema, non si fa domande.
Ci coglie di sorpresa come tutte le cose più semplici e ovvie del mondo.
Nel vento e nel buio si è aperto senza far rumore l’enorme spazio della confidenza della pelle e della fiducia nel cuore; della vicinanza e del silenzio.
Neanche noi facciamo rumore, perché rispettiamo il vento, e tutta la musica di questa notte può solo essere la sua.
Com’è diversa stanotte la campagna irlandese.
Ha braccia forti e lunghe.
Rinuncia al verde per amore, è lucida di morbida vernice blu e si fa bagnare là in fondo dalle gocce grosse e bianche delle onde.
Saliamo su un treno in una stazione che conosco e non conosco.
Il treno attraversa la campagna e arriva in una città.
So che è Dublino, ma è diversa da Dublino.
Eppure è mia anche se non è mia.
Ci sono salite e discese, è una città con un largo fiume, una città piena di circonvallazioni e di auto, e anche un paesino.
Le strade sono piccole e larghe, come in un borgo dell’Umbria e una zona industriale metropolitana.
Sono proporzioni contraddittorie eppure coerenti.
Bisognerebbe ricordarsi sempre qual è la radice di metropolis.
µ????-µ????, madre.
Vogliamo mangiare.
Non so se abbiamo fame, ma vogliamo mangiare.
Mio dio che silenzio.
Come stiamo zitti.
Parlare non serve.
Abbiamo avuto la pelle, il vento, la sua musica, l’acqua del mare e la sua schiuma, i nostri corpi, la luna, il cibo e la µ????.
Abbiamo avuto la terra, la campagna, l’Irlanda.
Non ci serve più niente.
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