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alimentare la vergogna di noi stessi
Dopo un Santo Stefano trascorso per metà al pronto soccorso (tutto bene, ma per saperlo s’è dovuto attendere fino alle 22.45) e per metà al lavoro, mi sento perfettamente attrezzata alla prova a cui oggi sono attesa.
un servilismo imbarazzante
M’è capitato fra le mani un numero di Sette del Corriere della sera di un paio di settimane fa. Non è più patinato. È il Sette nuovo, quello su carta opaca.
E mi sono domandata che differenza c’è fra il «Gente» dei bei tempi della famiglia Grimaldi di Montecarlo, Ballo della Rosa, Casiraghi, o la «Novella 2000» degli amori di Milva, e un «Sette» che intervista Lavinia Borromeo in Elkann in uno stato di prostrazione e di deferenza psico-fisica desolatamente sconsolante.
Come se Ella – opportunamente definita con il servile appellativo di «donna Lavinia» – fosse Nostra Signora Bionda e Generosa del Feudo dei Bellissimi Ricchi.
Oso augurarmi che tanta prostrazione sia utile a qualcosa.
il terrore
Per capire dove ci troviamo, varrà la pena dare una scorsa a ciò che viene generosamente definito «l’editoriale».
«La carta su cui è stampato Sette non è riciclata, non è povera, non è lucida…», (ma anzi è carta certificata bla bla perché a noi bla bla interessa bla del pianeta; col che definitivamente non si capisce per quale motivo Style sia invece lucido e patinato, con carta ricca e sprecona e inquinante. Ma vabbe’, per carità, non vorrei mai).
Mi concentrerei sul «non è povera», segnalino freudiano del terrore che percorre le nostre schiene di borghesi in via di impoverimento economico (quello psico-culturale è un fatto).
austera ed elegante
Qual è il messaggio veicolato da quel (la carta) «non è povera»? È una specie di «tranquilli, lettori: non avete comprato un giornaletto da straccioni. Può anche sembrare, ma niente paura. Questa è carta di tipo wow», tant’è che – cito – «qualcuno l’ha persino definita “austera ed elegante”».
love
Ma veniamo a Nostra Signora donna Lavinia.
«Del resto», leggiamo, «il marito» John Elkann, caro, «le ha dato il nomignolo di Lav», giocando sul medesimo suono di “love”, amore in inglese».
Difficilissimo prendere le prime tre o quattro lettere di un nome e farne un nomignolo.
Solo i Signori della Razza Padrona possono riuscirci.
per necessità
Didascalia di una foto in cui «Lav» è alle prese con disegni e pennarelli: «Designer per “necessità”: Lavinia nel suo studio mentre disegna la collezione BLav. Pensata per risolvere le necessità pratiche delle mamme che, come lei, hanno bambini tra 0 e 4 anni».
niente nomi
Aggiungerei che nella foto compare un’altra persona, una donna. Ma dev’essere troppo bassa in grado perché qualcuno si sia peritato di domandarne il nome.
A lei togliamo anche il diritto all’identità.
Trattasi di famiglio di sesso femminile, probabilmente.
Niente su cui valga la pena soffermarsi.
la collezione
Sulla collezione, Nostra Signora donna Lav spiega: «Dovevo cambiarli in continuazione, e così ho pensato di creare una collezione pratica ed elegante di abiti per bimbi».
Che una poi dice a se stessa: ma come ho fatto a non pensarci io, quando mio figlio era piccolo?
la fatica di affermarsi
La griffe di NSDLBiE (Nos. Sig. Don. Lav Borr. in Elk.) ha già debuttato (toh!) a Pitti Bimbo, salone fiorentino di moda per l’infanzia.
E da questo gennaio troveremo nei negozi le calzature che NSDLBiE ha disegnato insieme a Giorgia Caovilla.
Poi ci sarebbero anche gli accessori per la casa. Anzi: «la limited edition di accessori per la casa, la L collection, un progetto nato con Matteo di Montezemolo».
superdame
A me pare assolutamente normale che chi può faccia.
Può non piacermi il privilegio, e in effetti mi fa francamente orrore, però non è che vorrei togliere alla povera NSDLBiE quel poco che col sudore della sua fronte s’è costruita.
Solo, mi piacerebbe che un giornale, tanti giornali, non facessero finta di credere che il mondo sia quello di queste superdame; vorrei che la stampa non accreditasse l’esistenza di questi mondi come universi tangenziali ai nostri, dai quali sono invece separati da secoli/luce.
la distrazione
Vorrei che chi scrive non scrivesse per far venire il languorino a chi legge.
Vorrei che chi scrive si rendesse conto della responsabilità che ha.
Vorrei che la smettessero di propagandare l’esistenza di questi universi come mondi ai quali, solo a volerlo, tutti possiamo avere accesso.
Perché questo serve solo ed esclusivamente a distrarci, a portarci lontano, a farci persuasi che da qualche parte in giro per la nostra identità plebea si nasconda un frammento di Lavinia e un frammento di John.
E dunque, se è così, perché dovremmo cercare noi stessi quando invece possiamo trovare loro?
la vergogna di noi stessi
Vorrei che la smettessero di mandarci il messaggio che ci dobbiamo vergognare di essere ciò che siamo.
Non ricchi, magari; non così belli come queste lei (questi lui) e i loro augusti mariti (le loro auguste mogli); non così pronti a creare collezioni di moda per bambini se nostro figlio piscia i calzoncini; o edizioni limitate di accessori per la casa: non imprenditori.
Noi siamo solo una vergognosa sfilza di «non».
la porta principale
C’è una frase di «Nel nome del padre» che mi fa impazzire di brividi giù per la schiena.
Il protagonista viene assolto.
Un agente gli dice «Vieni, esci dalla porta posteriore».
E lui, serio, fiero: «Io sono un uomo libero. Esco dalla porta principale».
Ecco.
Ognuno di noi ha la sua porta principale.
Non abbiamo bisogno dei buchi della serratura delle Nostre Signore.
Non abbiamo bisogno dei loro scarti.
e mi domando in tutto questo il giornalismo dove sia…
Svolge, come sempre, la funzione che gli è assegnata dal potere.
Vorrei improvvisamente avere un sacco di soldi, scalare il Corsera (mica come Ricucci!), e nominarti direttore assoluto della testata.
Fantastico post.
P.S.
Casualmente, ho notato anch’io come Sette abbia cambiato Style d’impaginazione e carta. Anche i caratteri fighi tipo bodoni tanto fascion rendono non povera tal rivista poubelle raccatta fondi pubblicitari.
Lucas, sei molto più che un tesoro.
Pensa che quand’eravamo collaboratori sentimentali – poi è venuto il contratto a tempo determinato, e in terza battuta quello a tempo indeterminato salvo preavviso o giusta causa – mio marito pensava la stessa cosa.
All’epoca mi piaceva l’idea.
Adesso, te lo giuro, non accetterei un incarico di quel tipo nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Non è snobberia (lo so che si dice snobismo!), ma è che non potrei sopportare di dover essere la cinghia di trasmissione dei comandi esterni verso l’interno e nel contempo la difenditrice dell’autonomia dei miei colleghi.
No, grazie.
Lo lascio fare molto volentieri a quelli:
a) più bravi di me;
b) più attratti dalla dimensione del potere non su di sé (che a me interessa invece moltissimo) ma sugli altri.
Però grazie mille.
E’ un pensiero molto generoso.