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ho imparato una lezione, finalmente bella
Ieri sera sono stata a Villa di Serio, a Presente prossimo, a vedere o sentire (è proprio difficile da dire) Aldo Nove e Raul Montanari.
Beh.
La recitazione delle loro «covers» (che in realtà sono anche di Tiziano Scarpa) è stata un’esperienza sensoriale ed emotiva travolgente.
Sono un tipo scettico e durino, io. Eppure a poco a poco ho sentito che ogni resistenza a partecipare veniva meno; che non stavo più assistendo, ma ero dentro.
Ascoltando Montanari e Nove leggere le loro poesie – alcune perfettamente irreggimentate nel magnifico paludamento delle forme classiche, eppure così rutilanti e tiranne – sopra la musica che aveva ispirato in loro quelle parole mi ha creato una specie di stato alterato di coscienza (no, non sono affatto impressionabile!) che mi ha fatto vivere la sensazione fisica della vertigine.
Anche se per sgombrare il campo da possibili equivoci va forse preliminarmente precisato che sono astemia, quel che voglio dire è questo.
Ieri sera io ho imparato una lezione, ed era – finalmente, dopo tante lezioni aspre e dure – una lezione bella.
Che:
1. nel mio Paese di merda;
2. in un mondo – quello letterario – così bizzarro e autoreferenziale da mettere spesso al mondo l'(in)virile spettacolo della garetta a chi ce l’ha più lungo;
3. in un nord così piagato dalla miseria del leghismo di massa;
4. in una stanza relativamente piccola, tra persone che non si conoscono;
5. in una situazione non teatrale, e cioè incapace per sua natura di creare complicità fisica d’affetti con il protagonista di una storia in quanto «portatore di trama»,
a me è successo di:
a) divertirmi, nel senso proprio del termine; cioè di essere trasportata via in direzione – appunto – divergente, da un moto al quale non sarei stata in grado di opporre resistenza nemmeno se avessi voluto;
b) essere trascinata in un vortice sensoriale;
c) aver sentito parole urticanti e balsamiche, ma – come posso dire? – sintatticamente corrette, nel senso che non escludevano nessuno perché si rendevano materia per tutti. Erano parole che non se la tiravano, insomma; se dire cose simili a proposito delle parole ha senso (a volte, invece, la poesia – o forse le pretese poetiche – ci fanno sentire un po’ merde, perché ci sembra di non capirle);
d) aver toccato la fisicità che c’è nelle parole;
e) aver compreso esattamente – ne sono certa, perchè l’ho capito con la pelle – l’attimo in cui ai tre autori di «Nelle galassie oggi come oggi» è scattata la sovrapposizione fra musica altrui e parole loro.
Ah.
E in genere non amo la poesia.
E’interessante notare questa ‘fisicità delle parole’ che hai sentito assistendo ‘dal vivo’ a un evento. Proprio in tempi in cui i corpi non visti non esistono (semplificando un pensiero espresso da Prosperi, su La Repubblica il 30-10) e contestualmente la fisicità della carne si perde dietro a fiumi di contenuti frammentati, caotici e velocissimi nonostante il silenzio in cui annegano.
In effetti, il pezzo di Fontana ripreso anche da Nazione indiana va nella stessa direzione: dice che i corpi di Stefano Cucchi e del camorrista ucciso andavano visti e guardati per restituire al corpo la sua verità, per fissare il limite del vero.
Ma il punto poi, andando un passo oltre, non sarà poi: qual’è quel ‘limite vero’? Davvero basterebbe vedere, restituire alla vista la percezione di dimensioni, spessori, pieghe di carne? Forse sì, forse restituirebbe comunque qualcosa. Ma la verità di un corpo, mi chiedo anche, può essere unidimensionale? Basta guardare insomma? Oppure c’è comunque uno stacco incolmabile per noi come società abituata a prestare attenzione a piccole briciole che poco o nulla lasciano perché troppe e confuse da un resto che siamo anche noi pieni di incastri, corse feroci e impossibilità di capire?
Me lo sono chiesta, lo sai, anche per Eluana Englaro.
E ora, dopo aver studiato articoli su articoli mi pare sia comunque un confine fragile. Perché la forza del rendere strumento, del piegare a intenti, del soffiare per spostare traiettorie; quella forza lì è molto potente, instupisce. Che è più o meno quello che scrive aanche Fontana, che citi anche tu: “Qualsiasi fatto può essere accomodato da una teoria opportunamente modificata.”
‘Instupisce’ voleva essere ‘instupidisce’. Scusa la fretta.
Sì, hai ragione: vedere non basta, perchè come dici tu il corpo ha troppe verità per far da testimone a una sola di esse, e univoca, per giunta.
Ti ricordi che ti dicevo che anche esponendo il corpo di Eluana alla visione del Paese secondo me non necessariamente si sarebbe avuta la percezione dell’inevitabilità – non so come dire – della sua morte?
Però, al di là di queste considerazioni, nel dichiarare la necessità di vedere io stavo ragionando da giornalista (se il verbo ragionare si puà ancora applicare alla mia professione).
La realtà va mostrata, e i mediatori professionali della realtà d’interesse pubblico e politico dovrebbero essere in primis i giornalisti, i quali hanno secondo me sempre e comunque il dovere di mostrare.
È il motivo per cui qui nel blog ho messo la foto di Stefano Cucchi da morto. Perché, al di là del ragionare sul corpo e sulle sue molteplici verità, io da giornalista ritenevo di avere l’obbligo di farlo.
Ricordo, in occasione di uno dei bombardamenti israeliani sulla striscia di Gaza, l’imbarazzo che provai dovendo scegliere la foto da pubblicare sulla pagina del giornale dove lavoro.
Proprio quel giorno erano uscite le immagini di molti bambini uccisi, coi piccoli abiti insanguinati, le testoline inanimate che sfuggivano all’abbraccio e collassavano verso terra, gli occhi opachi.
Ho combattuto molto fra me e me.
Perché c’è anche un’altra cosa, da mettere in conto: il fatto che un giornale può finire in mano a un bambino.
Mille e mille volte mi sono risposta che non sono i giornalisti a dover depurare il mondo a beneficio di genitori incapaci di spiegare ai figli la complessità della vita e del dolore.
Mille e mille volte ho rifiutato il compito didattico del giornalismo.
Figuriamoci, poi, l’idea del giornalismo come missione.
Però quel pomeriggio ho cercato un modo per dire, far vedere, mostrare e non minimizzare, senza indurre allo choc.
Ho provato.
Volevo vedere cosa ne usciva.
Invece di battagliare per far uscire la foto con la faccina del cadavere, ho provato a cercare un’altra strada.
C’era una foto struggente e meravigliosa: un padre che teneva in braccio il cadavere del suo bambino, tutto coperto. La testa non si vedeva perchè penzolava al di là delle braccia dell’uomo, ripreso di tre quarti.
In primo piano c’era solo un piedino.
Un piccolo piede sai di quelli che sembra che abbiano ancora decine e decine di dita e non solo cinque? I piedini dei bambini sono così.
Ho pubblicato la foto dei piedini.
Scusa la digressione professionale.
Mi serviva solo a dirti che il corpo non ha soltanto tantissime cose da dire; ha anche moltissimi contesti in cui farlo.
E – dimenticavo – nel caso del giornalismo il corpo fissa un limite chiaro del vero.