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handicap, emozioni e minimi eroi di comodo/2
Mi sono resa conto anch’io che se ho pubblicato la foto mia e di mio fratello è perché – in un modo che non so e per strade che per ora non saprei ripercorrere a ritroso – qualcosa dentro di me è cambiato, s’è spostato, ed essendo rotolato sotto un’altra fonte di illuminazione ora preme per uscire, e vuole rendersi riconoscibile e nominabile.
Per adesso, è successo che ieri sera mi ha chiamato Marco, mio marito, mentre ero al lavoro.
«Ho letto», mi ha detto.
«Cos’hai letto?», gli ho chiesto.
«Il tuo post».
«…».
«La foto», ha detto. «Hai messo la foto. Cosa sta succedendo? Qui c’è qualcosa», ha detto.
Poi è successo che un amico di Facebook mi ha scritto una lettera molto intensa che gli ho chiesto il permesso di pubblicare qui (mi risponderà, credo).
Poi è successo che un’amica mi ha mandato una mail per dirmi che aveva percepito il post come «testimonianza sulla carne aperta, esposizione dei nervi scoperti. Mi si è conficcato da qualche parte. In uno spigolo del gomito mi sa. Alla fine la scrittura tira sempre fuori qualcosa e si vede direi, si sente».
Poi è successo che ha letto anche mia madre, e ha capito che io ho capito.
No. Ha sentito che io ho sentito, e che per tutta la vita non ho fatto altro che sentire.
(Generata, non creata. Della stessa sostanza della madre).
Poi è successo che Giulio Mozzi – che ha segnalato il mio post su Facebook, dove alcuni hanno scritto «grazie» – ha ripreso la foto su Vibrisse come link al mio articolo, e ne è nato un piccolo dibattito che io vorrei però riprendere qui, per riportarlo più vicino a me.
Voglio solo aggiungere che questa è la prima occasione in cui in una situazione non privata io faccio girare sui suoi cardini una porta carnale che è sempre rimasta «pubblicamente» socchiusa.
Questo mi crea una sensazione fortissima di straniamento. Come se tutta la vita precedentemente vissuta non potesse che avermi condotto a questo momento qui; come se ci fosse una predestinazione.
Come se io avessi cercato di scrivere per dire queste cose, più che le altre che finora ho detto.
Ed è molto bello vedere che si muovono piccoli fili e i gomitoli di lana escono dai cestini.
Di seguito, i commenti da Vibrisse.
(Se è una cosa contraria al galateo web, me ne scuso).
ezio Dice:
18 Novembre 2009 alle 23:25
Mah. Io non ho un fratello handicappato,né un figlio handicappato, ma nella classe di mio figlio sia alle elementari che alle medie ci sono stati (e ci sono) bambini/ragazzi handicappati con la famigerata “insegnante di sostegno”.
Non sono mai (stati) fatti uscire dalla classe e – soprattutto alle elementari – è stata una fortuna averli, conoscerli, vederli recitare, giocare, vivere. Un arricchimento costante e reciproco. Che non ci sarebbe potuto essere se non ci fossero state queste adorabili, esperte, appassionate, normali, “insegnanti di sostegno”, che semplicemente arrivavano là dove le maestre, per motivi ovvi, non sarebbero potute arrivare.
Rispetto l’esperienza della convivenza quotidiana e del dolore di una soluzione che è in contraddizione con questo effimero aiuto. Ma io non ho visto mai, nella presenza della insegnante di sostegno, nessuna speranza di migliorare le prospettive di vita di questi bambini, nessuna illusione, nessuna motivazione normalizzatrice (per giunta tarata male). Solo la cosa giusta da farsi in quel momento.
Natalia era contenta, era chiaro, bastava vederla. Era sufficiente.
federica sgaggio Dice:
19 Novembre 2009 alle 09:47
Sì, Ezio.
Sì.
Non hai visto nessuna illusione.
La cosa giusta da farsi.
Adorabili insegnanti di sostegno.
Sì.
Hai ragione tu.
Se anche non sono stati fatti uscire dalle classi in grazia della presenza di queste adorabili insegnanti di sostegno (che non ho criticato in se stesse, mi pare chiaro: ho detto che sono considerate insegnanti di serie b, ma magari nella scuola di cui tu hai fatto esperienza nessuno si sarà mai sognato di trattarle da insegnanti di serie b), tu credi veramente che queste meravigliose persone handicappate che è stata una fortuna conoscere – probabilmente perché non erano figli tuoi – avranno una vita adulta migliore, più autonomia?
Non sono per niente ovvi – e non lo erano nel 77 – i motivi «ovvi» per i quali una maestra non può «arrivare» a un handicappato, Ezio.
Non è vero che non avresti potuto avere la fortuna di conoscere queste persone handicappate se non ci fosse stata l’insegnante di sostegno.
In primo luogo perché potevi andare a cercarne un po’ in giro (di handicappati, intendo), e li avresti conosciuti.
In secondo luogo perché la necessità delle insegnanti di sostegno è indotta dalla legge; da una scelta, perciò. Non da un dato incontrovertibile. Non dall’«ovvio».
Non c’è niente di ovvio.
Quando parlo di ciò che sintetizzi con la formula efficace della «speranza normalizzatrice», non parlo di un sentimento che viene provato per forza da tutti. Parlo del sentimento che io ho visto vivere, e io ho vissuto. Parlo della semplicità con la quale le coscienze si acquietano vedendo un docente di sostegno e dicendo a se stesse «in fondo basta poco, no?».
Non parlo dei sentimenti dei genitori degli altri compagni.
paolocacciolati Dice:
19 Novembre 2009 alle 10:58
Alle medie avevamo in classe Giovanni. La madre di Giovanni era vedova e aveva perso in un incidente l’altro figlio “sano”. Doveva lavorare e non aveva tempo per Giovanni, durante il giorno. Comunque Giovanni è stato un dono per tutti noi, ci ha aiutato, molto più di quanto noi abbiamo aiutato lui. Noi siamo stati il suo insegnante di sostegno, dentro e fuori la scuola. E finchè ha avuto noi se l’è cavata benissimo.
Certo, forse Giovanni era meno sfortunato di altri sfortunati, aveva “solo” una lesione al cervello, poteva camminare, intereagire un poco con gli altri.
Non è mai stato lasciato in un corridoio, almeno finchè ci siamo stati noi.
ciao Federica
Felice Muolo Dice:
19 Novembre 2009 alle 11:12
Per un certo periodo, mia moglie è stata insegnante di sostegno. Si occupava di un bambino autistico, nella scuola. Il bambino fece notevoli progressi, relativi ma notevoli per la sua condizione, da quando mia moglie lo accudiva. La cosa non accadeva così per caso. Mia moglie si era già interessata di bambini handicappati precedentemente, in un istituto per handicappati. Quindi ’sapeva come bisognava comportarsi per farli progredire’. Il ’suo lavoro sul bambino’ però veniva considerato con indifferenza nella scuola. A un certo punto pensarono che fosse inutile e la spedirono da dove era venuta. Dopo un certo periodo, la pregarono in ginocchio di ritornare, la minacciarono anche. Il bambino in questione era regredito notevolmente, ‘il lavoro fatto da mia moglie su di lui’ era andato irrimediabilmente in fumo.
Ciao, Federica.
federica sgaggio Dice:
19 Novembre 2009 alle 11:41
Perché in effetti, Felice, occorrerebbe un’attenzione continua totale assorbente esclusiva perpetua.
Mia madre faceva fisioterapia a Francesco per ore e ore al giorno, per dire. Le avevano insegnato come, e lei faceva.
Che fatica.
Lui piangeva. Detestava mia madre, che era diventata la sua carnefice, quella che gli impediva il diritto all’ozio.
Mia madre stava male perché non poteva neanche andare a fare la spesa perché se non era la ginnastica Doman era il metodo Bobath o il tavolo da statica o i massaggi.
E poi – pensa che mi ricordo il giorno esatto – lei disse basta.
Eravamo vicino al tavolo imbottito dove non potevamo più pranzare o cenare perché era diventato il tavolo della ginnastica di Francesco.
Facendo le digitopressioni di non so più quale metodo, lo stava soffocando.
E urlò: «Bastabastabasta. Io voglio vivere. Io voglio che mio figlio non abbia paura di me quando vede che mi avvicino».
Mi sembrava equo, ma temevo che senza ginnastica mio fratello sarebbe morto a poco a poco.
Da che parte dovevo stare?
Chi era il nemico di chi?
Chi il carnefice?
E io cosa c’entravo?
Perché a sei o sette anni dovevo conoscere il peso di certe decisioni?
Perché?
E non è servito a niente.
Come dici tu: se ne va tua moglie, e il bambino autistico «decade», si corrompe.
Vedi?
Si può sperare, e fare, e lottare, e disperarsi: non cambia niente.
I Franceschi finiscono in istituto, vite a disposizione.
E se non finiscono in istituto, i loro genitori o i loro fratelli smettono, semplicemente, di vivere.
federica sgaggio Dice:
19 Novembre 2009 alle 11:54
E smettono di vivere anche se i figli vanno in istituto, Felice. Perché un genitore che abbandona un figlio non riesce a perdonarsi, o anche solo a dire «vabbè, è andata così e non c’era alternativa».
Secondo me non bisogna dimenticare che ogni cosa positiva/negativa passa da una relazione, non dall’istituzione di quella relazione.
Non è l’insegnante di sostegno che era utile a quel bambino: è *quella* persona.
Se lei fosse partita, un’altra insegnante non avrebbe potuto fare le stesse cose, e forse sarebbe regredito lo stesso: perché quella relazione non c’era più con un’altra.
E forse nemmeno se fosse tornata la stessa persona («Te ne sei andata quando avevo bisogno di te, adesso che cazzo vuoi…», tipo).
È per questo che la vita dev’essere “normale”, e non “sostenuta”.
L’istituzionalizzazione è la parodia delle relazioni.
E comunque in alcuni modi di entrare in contatto con le cose io rivedo quella risorgenza di cattolicesimo di cui mi parlavi a proposito della letteratura.
Sembra che non abbiano dubbi; quelli coi dubbi sono i laici…
L’istituzionalizzazione è la parodia delle relazioni.
Che cosa vera.
quindi non resta che arrendersi, non s’è persa solo la battaglia ma la guerra? e la domanda non è posta con cattiveria sia molto chiaro, ma con… sconforto, sì che a leggere tutti questi interventi è il sentimento che emerge assieme a rabbia e frustrazione.
Possibile che non ci sia modo?
Io continuo a cercarlo.
Penso che ce ne siano di individuali, che sia possibile cambiare la propria vita grazie alla bellezza dei propri incontri, all’attaccamento ai propri amori, alla dedizione ai propri progetti, alla fedeltà al proprio cuore.
Ma non vedo alternativa che la costruzione paziente di piccole isole, minuscole, di condivisione di cose e di sentimenti.
il che spiega i vostri sorrisi nella foto
Sì, forse sì!