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bacon mi sta dicendo qualcosa
Domenica scorsa, esattamente una settimana fa, sono andata a vedere la mostra che la Hugh Lane Gallery di Dublino ha dedicato a Francis Bacon nel centenario della nascita, avvenuta – chissà perché lo ripetono veramente dappertutto – al 63 di Lr. Baggot Street.
Ho preso il catalogo, ho ascoltato interviste su Internet, ho letto, ho visto.
Ho letto qualcosa della sua vita, di cui non sapevo niente.
Il padre militare opportunista; la madre ricca, di origine irlandese; la nonna a cui era tanto legato.
La consapevolezza piuttosto precoce della propria omosessualità, l’assenza di educazione formale all’arte.
Il fatto che la notte precedente a una sua fondamentale mostra parigina apprese che il suo amante era stato trovato morto in albergo. E che un’altra volta, prima di un’altra mostra non ricordo dove, seppe che un altro amante era morto.
La vasca da bagno in cucina.
E lo studio.
Lo studio londinese pieno di cose, tutte accatastate l’una sull’altra.
Spizzichi e bocconi di una vita strana, di un uomo che – disprezzato come fu dal padre, forse – negli occhi non sembra portare nessuna luce di autocompiacimento.
Dopo la sua morte, l’erede donò lo studio intero alla Hugh Lane, il cui staff fotografò e catalogò ogni pezzo, ogni libro, ogni foto, ogni straccio, ogni tubetto di colore, ogni scatolina, ricreando poi al museo lo studio in ogni suo più minuto particolare.
Un lavoro certosino e in qualche misura anche feticista.
La mostra raduna opere famose, disegni, schizzi, ritagli di giornale, opere incomplete, foto, pezzi di immagini, appunti, biglietti, tele tagliate e private di molte delle loro parti a causa del fatto che a Bacon non piaceva com’erano venute. C’è anche l’autoritratto al quale stava lavorando quando morì, nel 1992.
Che orrore capire che la morte può arrivare quando ancora non hai finito di fare.
Sono rimasta molto impressionata da quel che ho visto, e da quel che ancora sento a una settimana dal momento in cui l’ho visto.
L’uso delle foto sminuzzate, triturate, bruciacchiate, macchiate, come modello per la sua pittura.
Il ruolo delle foto, specie di cibo che la bestia-Bacon deve compulsivamente mangiare in enormi quantità, deteriorarle massacrandole per estrarne un’essenza atomica, e finalmente lasciarsene inseminare per dare vita alle sue opere.
Lo studio sul movimento e la materialità del corpo umano sulla base degli scatti seriali (che definirei ossessivi ma forse sono solo documentari) del «proto-fotografo» Eadweard Muybridge; il corpo e l’identità che si sciolgono a terra in una pozza rosa nel ritratto di John Edwards del 1988…
Nell’intervista che David Sylvester gli fece nel 1966, Bacon dice che ha anche utilizzato a modelli persone in carne e ossa, ma gli sembra che le foto siano meglio perché le persone vere lo inibiscono. Si sentono offese e profanate dalle deformazioni in cui vedono contorti i loro volti e i loro corpi, dice; e io non voglio, se loro mi piacciono, offenderle.
Dice anche che quando stette due mesi a Roma non andò a vedere Velazquez ma gli sembrò più rasserenante guardare le foto delle sue opere. Non volevo confrontarmi con l’opera in carne e ossa, racconta, perché avevo paura di vederne la realtà.
Dice che la pittura è un’arte duale, che in ogni dipinto si ritrae anche se stessi, oltre che l’oggetto del dipinto.
Io non so.
Quest’uomo, questa mostra, stanno cercando di dirmi qualcosa da una settimana.
Io non sono ancora riuscita a capire esattamente cosa.
Ha a che vedere con l’autostima, col corpo e col suo cambiamento. Con la forza, la fragilità, la paura. Con la soddisfazione di sé.
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