Tags
Related Posts
Share This
l’espatrio, l’intrusa e la scrittura
Quest’estate, in giro per la Rete, s’è sviluppato – in forme così quiete e riflessive da non poter forse manco poter essere chiamato «dibattito» nell’accezione comune – uno «scambio di pareri» fra intellettuali precari (categoria che non virgoletto per motivi estetici, avendo appena virgolettato lo scambio di pareri).
Il tema era «restare o partire?».
Ne argomenta giusto oggi anche Demetrio Paolin, in relazione di contiguità anche con cose di Patrizia Patelli e mie.
Ne ha parlato Simone Ghelli su Scrittori precari; ne ha parlato Claudia Boscolo lì ma anche qui, ne h parlato il Sole24Ore nel suo inserto domenicale.
Il tema mi angoscia molto, per un grande numero di ragioni, in parte – come posso dire? – identitarie, in parte materiali (che poi, vai a vedere quanto di materiale effettivamente c’è in ciò che definiamo «materiale», ma vabbe’).
Voglio citare da qui questo pezzo di Claudia Boscolo:
«Il padre fondatore della lingua italiana fu esiliato da Firenze in contumacia, come si studiava a memoria al liceo, senza capire cosa ciò avesse significato per il poeta sul piano umano, intellettuale e professionale: un disastro.
Le radici della cultura italiana affondano nell’esclusione, nella pratica di consorteria, nell’infamia.
La situazione attuale non si può considerare una cacciata implicita? Noi si resta qui, ma qualcuno ce l’ha chiesto forse?».
(E dove sono) «questi intellettuali che grazie a raggiunto benessere, coronati dall’alloro di prestigiosi premi letterari, invece di abbracciare con uno sguardo amoroso il proprio paese da cui non solo non se ne vanno indignati, ma anzi si godono tutte le glorie transitorie di qualche successino editoriale in un carnevale egoico che fa pietà, invece di fare fronte comune e insistere perché qualcosa cambi, si impegnano unicamente in miserande scaramucce sui quotidiani nazionali, che chi è in scadenza di contratto non ha nessuna voglia di leggere, e se le legge per curiosità ne rimane disgustato».
Claudia non la conosco, e le nostre esperienze di vita sono molto diverse.
Però queste sue parole mi colpiscono violentemente.
È sempre troppo difficile capire a una prima occhiata quanto della disperazione dell’«intellettuale» deluso dipenda dal fatto che l’asserito intellettuale certamente deluso è uno sfigato di dimensioni galattiche che non sa fare i conti con la propria mediocrità quando non con la propria livida «nientezza».
Essendo probabilmente nota la crudeltà con la quale esercito su di me la ginnastica dell’autocritica (se questo sport facesse perder chili sarei all’idratazione forzata), il quesito sulla sfigatezza galattica (e anche quello tipo «ma Fede, tu saresti un’intellettuale?») me lo sono ben posto, e qualche risposta me la sono ben data.
Il fatto è, però, che leggere parole come quelle di Claudia consente la ricollocazione in una prospettiva contestuale di ciò che la nostra esperienza di vita e i nostri ridicoli o inesistenti (per generazione) percorsi politici giovanili ci costringerebbero invece a considerare ubbie solipsistiche.
Mi convinco sempre di più che la dimensione comunitaria non (mi) è praticabile; che condividere percorsi con altri che apparentemente condividono le nostre idee è una delle cose più strazianti che la vita possa avere in serbo per noi, perché dà luogo alle delusioni più profonde che si riescano a immaginare.
Continuo a girare intorno all’unico dato di fatto che riesce ancora a darmi forza (amori a parte): che ciò che ha senso sono le relazioni personali, l’uno-a-uno, o la dimensione di gruppo minimo.
Ma allora.
È un mio problema di identità, o il combinato disposto (per dir così) di una fase storica congiunturale?
Per banalizzare: l’intrusa sono io o sono circondata da estranei?
(Che poi: ci son momenti in cui mi dico «ma che te ne frega»… Sarà grave?)
Da http://clobosfera.wordpress.com/2009/08/23/il-quesito-quintessenziale-restare-o-partire/#comment-63
Cara Federica,
ho letto con molto interesse il tuo commento al mio post, e mi conforta il pensiero che la mia critica all’incapacità fare fronte comune fra gli intellettuali crei inquietudine. Mi conforta non perché io sia sadica, ma perché è evidentemente un segnale che i tempi stanno cambiando per il meglio.
E’ vero, noi non ci conosciamo e abbiamo percorsi diversi. Provengo dagli studi sul poema epico come forma di autorappresentazione comunitaria e da lì sono passata ad occuparmi di scrittura collettiva di tono e intento epico come ripresa di quel tipo di autorappresentazione.
Mi interessa quindi la rete come veicolo di diffusione di questa autorappresentazione collettiva. Penso usando il soggetto collettivo noi, e pur essendo un orso, ho poca familiarità nella vita e nella pratica con il soggetto Io e di riflesso mi interessa ciò che è serio e giusto per la comunità, concepita come insieme di individui, ma con un obiettivo comune che è quello del benessere di tutti, non di uno solo.
Trovo quindi disgustoso l’ego ipertrofico di quell’uno che ha invaso le nostre case e le nostre menti, e per il cui beneficio molti lavorano magari pure sodo anche se male, invece che prestare la propria opera al beneficio della collettività. Mi considero una democratica etimologica, nel senso che della parola democrazia colgo il demos di cui sono parte e il kratos che mi preoccupa molto, specie in questo periodo.
Vorrei quindi commentare la tua affermazione e il quesito che poni e che mi pare fondamentale: “ciò che ha senso sono le relazioni personali, l’uno-a-uno, o la dimensione di gruppo minimo”. “È un mio problema di identità, o il combinato disposto (per dir così) di una fase storica congiunturale?”
Ci sono molte cose che hanno molto senso, una di queste è l’amore, e l’amore riguarda un gruppo minimo, meglio se formato da due soltanto accompagnati dal loro prodotto. Per me però oltre al gruppo minimo ha molto senso anche il gruppo allargato ovvero la società, gli esseri umani con cui è impossibile non interagire e in cui si vede riflessa la propria condizione, sia di essere umano in genere, che di umano contestualizzato in questa fase particolarmente drammatica che stiamo vivendo. Noi siamo tutti, e per me questa interezza, questo corpo unico, è fondamentale, quando vedo una persona che subisce una condizione (detto che per credo che oramai ritengo religioso non credo, scusa il gioco di parole, che nessuno in realtà subisca nulla) mi sento partecipe.
Si chiama empatia, e per come la vedo io, più per sentire che per formazione, è l’ingrediente alla base di quella roba che chiamiamo essere umano, un ingrediente che si è voluto sostituire con prodotti di sintesi con risultati fallimentari. Chiaro che alla base della società c’è la capacità di relazionarsi, di avere fiducia, di amare senza timore.
Tuttavia, il fatto che ci si produca nell’esercizio amoroso all’interno dei nostri gruppi minimi non implica per necessità l’esclusione dello stesso esercizio nel gruppo allargato ovvero il mondo in cui siamo manifestati. Per venire alla tua domanda, credo che sia effettivamente una fase congiunturale, lo vedo da tanti segnali, ma penso anche che alla radice del timore di estendersi oltre il gruppo minimo ci sia una questione di identità, intesa nel senso più positivo e discorsivo possibile.
Grazie molte per avere ripreso questo articolo, sono felice che la discussione (o meglio lo scambio di pareri, come dici tu) continui, anzi, vorrei che non si fermasse mai, perché questi dal mio punto di vista sono nodi nevralgici che si stanno sciogliendo.
A presto, Claudia
Da http://clobosfera.wordpress.com/2009/08/23/il-quesito-quintessenziale-restare-o-partire/#comment-63
Grazie a te, Claudia.
L’empatia la vivo nella carne, in realtà. E sentirmi costantemente «mondo» incarnato in una dimensione individuale ha informato di sé la mia identità, conformata sulla necessità di portare su di me il dolore altrui allo scopo di alleviarlo.
Non ne sono affatto fiera, ma è andata così.
Non so escludere che sia anche per questo motivo che fatico così tanto, ora, a sentirmi parte di un «collettivo» qualsiasi.
Ma c’è anche una questione più strettamente professionale: la «comunità» giornalistica – lo dico sul mio blog da sempre, lo dico anche in replica al pezzo di Demetrio di oggi su Vibrisse – non sa produrre nient’altro che autoreferenzialità, cooptazione, censura, collateralismo, servilismo, esclusione e tutto ciò che sai.
Nulla su cui si possa costruire alcunché.
Per una ragione individuale (identitaria) e per una ragione storico-professionale (identitaria anch’essa, probabilmente, non meno della precedente), dunque, fatico a sentirmi parte di qualunque cosa.
E diffido molto dell’idea di comunità virtuale che crea «società» su Internet.
Si costruisce a partire dai sentimenti comuni, penso.
Credevo che si costruisse a partire dalle idee comuni, ma poi – pensa l’ingenuità – mi sono dovuta ricredere, perché le idee si possono fingere più facilmente del sentimenti.
Non c’è mai stata situazione in cui, a partire da un’idea comune – mi sia venuto qualcosa di «collettivamente» sensato.
A meno che, dentro, non ci fossero anche sentimenti condivisi.
Sono andata fuori tema?
Boh!
Credo che copierò il tuo commento in calce al mio post, e mi permetto infine di suggerirti – se ne hai voglia – la lettura di un altro mio post, strettamente legato a quello che ti ha spinto a scrivere qui sopra.
Lo trovi a http://www.federicasgaggio.it/2009/09/lidentita-e-lo-statuto-di-uno-scrittore/
Baci
Da http://clobosfera.wordpress.com/2009/08/23/il-quesito-quintessenziale-restare-o-partire/#comment-67
Federica,
in realtà del mondo del giornalismo so molto poco, solo quello che mi raccontano, perché è un ambiente che non frequento, con cui ho sporadici rapporti grazie ad alcuni amici che ci lavorano, ma nulla più. La mia attività è un’altra, probabilmente la più isolazionista e autoreferenziale possibile.
Fare ricerca porta a concepire se stessi come distaccati dal mondo, e a parte i soliti convegni (per comprendere le dinamiche dei quali cui rimando all’immortale trilogia di David Lodge), il terreno di discussione e confronto è sostanzialmente inesistente, le pubblicazioni che si producono sono estremamente specializzate (ovvero le si legge solo se necessario) e si trovano in riviste che spesso si fa pure fatica a reperire. Questo microcosmo che si autoalimenta in carenza perenne di ossigeno ha però un pregio: permette di osservare da fuori le dinamiche altrui senza sentirsene coinvolti. Perché ti dico questo? Forse perché stando dentro l’accademia guardavo fuori dalla finestra e vedevo un sacco di potenziale mal sfruttato.
Un sacco di persone che per acquisire visibilità abdicavano, come dici, tu a idee, sentimenti, coerenza, invece di condivere tutto questo.
Siccome per fare i ricercatori ci vogliono due caratteristiche fondamentali, ovvero a) distacco dal denaro b) interesse morboso per tutto ciò che è quasi impercettibile eppure è, mi sono posta una domanda differente da quella che ti poni tu, e che però stranamente porta nella stessa direzione, tanto è vero che da impostazioni cosi diverse ne stiamo parlando qui.
Mi sono chiesta non quale sia lo statuto dello scrittore, bensì come gli scrittori, a partire dal loro statuto, qualsiasi sia il modo in cui questo è stato acquisito, potessero imporre un cambiamento radicale collaborando a diffondere una critica costruttiva per uscire dall’impasse politica, che è in origine culturale, del nostro paese. Ho constatato che chi possedeva questo potenziale era innanzitutto chi era già capace di condividere la pratica della scrittura e ho iniziato a interessarmi alla connessione fra la pratica della scrittura collettiva e un incedere epico connotato a questo tipo di scrittura. Ho scoperto non solo che esistono in Italia scrittori che anche operando da soli sono parte di una comunità molto produttiva sul piano della diffusione di idee estremamente avanzate, sia sulle modalità che sui contenuti della scrittura stessa, ma anche che c’erano un sacco di ricercatori che come me avevano voglia di costruire un modo partecipativo di fare ricerca accademica in campo umanistico. Le due cose, che sembrano irrelate, invece non solo hanno una correlazione intima molto profonda, in quanto la scrittura impone la critica e viceversa, ma messe insieme si sono rivelate molto produttive.
Quando sostieni che sull’autoreferenzialità, cooptazione, censura, collateralismo, servilismo, esclusione etc non si può costruire alcunché, lo fai forse a partire da un punto di osservazione interno che osserva lo stesso interno. In altre parole, in maniera un po’ ombelicale (nonè una critica, ma un’osservazione). Tuttavia, spostando sguardo altrove forse potresti trovare un sacco di gente che come te si interroga su un potenziale inespresso, sul desiderio di fare comunità a partire dalle idee (e anche dai sentimenti, perché no?). D’altronde il giornalismo partecipativo non è roba così recente, come non lo è il concetto di condivisione della conoscenza. Questo mi porta a risponderti sulla questione della diffidenza verso la comunità virtuale e la «società» su Internet. In realtà, da quella scoperta di cui ti parlavo prima è nata una comunità virtuale in cui si sono trovate persone che in comune avevano oltre alle due caratteristiche di cui sopra, una terza, che è ciò che serve davvero per fare comunità in rete: il distacco dalla questione identitaria.
La sovraidentificazione con il proprio ruolo (di ricercatore, di giornalista, di medico, etc), indipendentemente da chi attribuisce questo ruolo e se sia autoattribuito, è secondo me alla radice dell’incapacità di condividere conoscenze e intenti con l’unico proposito di rendere noto agli altri, alla comunità, “ciò che si sa”, perché sia pubblica utilità e contribuisca all’avanzamento.
Questo è quello che mi sento di risponderti, ringraziandoti nuovamente per avere innescato questo confronto che mi pare molto utile. Un abbraccio, Claudia
(ps purtroppo ho sempre il problema tecnico a postare sul tuo blog… )
Da http://clobosfera.wordpress.com/2009/08/23/il-quesito-quintessenziale-restare-o-partire/#comment-67
Capisco il tuo punto; è che le storie son diverse.
Hai ragione, comunque: spostando lo sguardo altrove si vede un panorama diverso.
È LA questione del periodo, per me: l’estraneità dal mondo del giornalismo mi ha aperto mondi precedentemente ignoti.
Non è che l’essere insider de facto significhi esserlo sentimentalmente.
E non è che spostando lo sguardo altrove (in attesa di spostare un po’ di più altrove anche i piedi e il sedere, visto che seduti si riflette con più comodità) smetti di vedere «dentro», quando di quel «dentro» hai fatto così lunga esperienza.
Ma quando, per esempio, parli di giornalismo partecipativo, ciò di cui io mi rendo conto è che nei confronti del giornalismo partecipativo sento una diffidenza molto profonda, e dal mio punto di vista pure motivato (ne ho scritto sul blog, farei meno fatica a parlarne di persona; adesso è una serata in cui ho cose belle da fare, grazie a dio, invece che lavorare. Ma magari prima o poi ci torno, è un tema che mi muove moltissime cose).
Sulla questione dell’identità il tuo discorso è molto affascinante, ma non riesco a condividerlo fino in fondo, nel senso che se mi è ben chiaro cosa sia e a cosa conduca la «sovraidentificazione» col proprio ruolo, mi è meno chiaro se essa possa anche minimamente coincidere o in parte sovrapporsi con ciò che chiami il distacco dalla questione identitaria (che non sono sicura sia alla base della condivisione della conoscenza; però non sono sicura di un sacco di cose).
Per comodità «scientifica» non faccio fatica ad accettare il punto, magari salvo buon fine
Ma per formazione, resto convinta che in qualunque discorso l’identità sia nodale.
L’identità, dico, e non il ruolo.
Senza consapevolezza della propria (anche mutevole) identità credo sia impossibile condividere alcunché. Davvero.
(Forse è un po’ come la questione del genere, no?
Maschile e femminile informano di se in modo primigenio e ineliminabile la nostra «essenza»?
Io penso di sì).
Ciao, e grazie a te.
Copio sul mio blog!!!
Ps. La trilogia di Lodge è deliziosa!