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è tutto un casting
Se, per pubblicizzare le sue quattro sedi staccate di Cesena, Forlì, Ravenna e Rimini, perfino l’università di Bologna, l’Alma mater studiorum, usa immagini e logiche da video di Noemi e «le Fantastike 4» (qui), al prossimo che mi dice che il casting – con allusioni sensuali o no, non importa – non ha impestato di sé e del suo venefico morbo ogni aspetto del nostro «discorso pubblico» penso che metterò un dito (forse il mignolo) in un occhio.
Aggiornamento di venerdì 10 luglio 2009: l’università s’è arrabbiata… C’è scritto qui.
Qualche anno fa un professore dello stesso ateneo ha realizzato un calendario delle dottorande (che si sono prestate, non so quanto obtorto collo).
Niente a che vedere con i vari Pirelli, per carità, ma certo l’allusione sensuale era chiara. Il tutto, ovviamente, era fatto per scherzo, per farlo girare tra i colleghi, per alleggerire il clima altrimenti troppo serioso del mondo universitario (sic). A noi italiani, tra le altre cose, ci rovina lo spirito da caserma e l’incapacità di creare complicità se non in queste forme.
Sì, penso di sì.
Alla fin fine io della palesazione assoluta del ‘casting’ che dobbiamo al papi di Noemi son quasi contento. Pur consapevole che nel gradualismo sta gran parte della realtà debbo dire che la mamma Barilla (c’è ancora?), la zia Kraft (c’è ancora?) e le mille donne vendute assieme alle automobili mi eran quasi più ostiche del calendario delle dottorande bolognesi, delle ministre per meriti sessuali e via dicendo. Anche del ‘casting’ sessuale dell’università.
Non che mi illuda del ‘tanto peggio, tanto meglio’, forse apprezzo solo la minor fatica che richiede la decodifica di questo ‘casting’ nel nome della pigrizia del tempo presente.
Chissà perché, chissà quando qualcuno e qualcuna s’erano illusi di poter essere oltre la merce. Era il tempo in cui, invece, tutto diveniva merce o più precisamente ciò che merce non era scompariva. Scompariva non solo dai valori, spesso pure dalla vista e dall’udito. Prima di quel tempo si usava la parola alienazione (che è di Feuerbach e non di Marx), dipoi c’è il ‘casting’ universale.
Certo, certo. Quel manifesto andrebbe conservato e presentato, seriosamente, al prossimo convegno sugli aspetti positivi della autonomia universitaria, assieme al calendario certamente.
La cosa più ammirevole è l’efficacia del manifesto. Tanto per gli studenti che per le studentesse. I primi coglieranno l’opportunità degli incontri, le secondo del proporsi. Eppure, eppure senza manifesto la cosa, la stessa cosa, funziona meglio. Eccome.
@dalavi: certo, la mercificazione è più evidente così. Accetterei la tua provocazione se, all’indomani dell’affissione del manifesto (o del calendario), si fossero verificate non dico rivolte, ma almeno garbate proteste. Invece, temo, la logica rischia di essere quella del ‘tanto peggio, tanto peggio’.
Quanto all’università: è drammatico che anche un’idea che condivido molto come quella dell’autonomia universitaria, in un contesto degradato come quello italiano, produca risultati così grotteschi.
Perché condividi l’idea dell’autonomia universitaria? Mi incuriosiscono i tuoi argomenti.
Ti dirò di più, condivido l’idea che le università competano per gli studenti, i docenti ed i fondi di ricerca (da sei mesi sto facendo esperienza in un contesto dove questi meccanismi funzionano piuttosto bene).
Mentre sono assai contrario alla competizione tra scuole dell’obbligo – si tratta probabilmente dell’unica istituzione rimasta che può fare integrazione sociale tra individui che altrimenti rischiano di rimanere ghettizzati in ragione la loro appartenenza sociale, culturale, ecc – credo invece che vi sia molto da guadagnare se le università sono messe nella condizione di ampliare l’offerta differenziando i percorsi formativi, le metodologie didattiche, le linee di ricerca. E’ evidente che, trattandosi di un mercato assai delicato, serva una forte componente di regolazione. E’ ad esempio necessario che gli studenti e le loro famiglie possano usufruire di informazioni veritiere su piani di studio e docenza e via dicendo.
In termini un po’ brutali: fare studiare i figli (o scegliere di fare l’università, visto che non ci sono sempre i genitori a pagare) è anche un grosso investimento economico. Come tale, è necessario che lo stato introduca regole a tutela degli “investitori”, in particolare di quelli vulnerabili.
ps preventivo: leggendo il blog con una certa costanza, temo che la terminologia del mercato applicata all’università ti farà inorridire. Non sono un fondamentalista del mercato e anche io spesso trovo urtante il ricorso alla retorica aziendalistica. Trovo tuttavia che nel tema della formazione universitaria vi sia una rilevante dimensione economica che tende ad essere o esaltata o esorcizzata. Mi piacerebbe si riuscisse a parlarne in modo laico …
Non so.
Fino a che i mezzi di reclutamento dei docenti sono così incongrui ai fini didattici, l’idea della competizione fra atenei mi sembra un po’ così…
Il problema, più ancora che nell’informazione corretta, mi sembra che stia qui.