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talenti, silenzi e l’«altro» inesistente
Uno degli insegnanti che a Dublino mi ha dato lezioni individuali – Paddy – mi ha detto due volte che sono una brava comunicatrice.
Non è una di quelle doti i cui contorni riesco a percepire in modo chiaro (anche perché in fondo ho sempre – moralisticamente? – pensato che la forma non può andare senza la sostanza), ma capisco due cose, entrambe importanti.
Che essere bravi a comunicare è un talento che ha sicura relazione con il mio lavoro.
E che per sentirmi dire che sono una brava comunicatrice (vero o no che sia: il punto non è qui) ho dovuto attendere diciassette anni di professione e spingermi fino all’Irlanda.
Al lavoro, in 17 anni, non se n’è mai accorto nessuno.
E anche se la bravura nel comunicare non fosse una mia dote, resta comunque che nessuno s’è mai accorto di nessun’altra cosa, né di me né di un’infinità di altri, ai quali viene tacitamente chiesto di essere contenti di quel che hanno: un posto di lavoro (non è poco, lo so) e uno stipendio.
E se anche qualcuno s’è accorto di qualche talento mio o di altri, ha taciuto.
Non c’è talento più grande del sapersi rendere utile al potere, immagino.
Quello viene riconosciuto anche al più idiota degli utili idioti.
Una delle cose che mi ha più impressionato leggendo i libri di Henning Mankell è il tipo di relazioni professionali collaborative che mette in scena nei suoi libri.
Certo: potrebbe inventarle, ma non mi sembrano finte.
Giovedì a Dublino, in Dawson Street, ho visto l’insegna di una libreria che si chiama «Murder Ink» e mi sono immediatamente diretta verso le sue porte a vetri.
Ho tentato la maniglia, ma la porta non si apriva.
L’occhio m’è caduto su un bigliettino sul vetro: il negozio chiudeva alle 17, e erano le cinque passate dal qualche minuto.
Mi sono girata sui tacchi e me ne stavo andando quando ho sentito il «clack» di una serratura.
Mi sono girata e ho visto che usciva una signora.
«Mi scusi se ho cercato di aprire», le ho detto. «Non avevo capito che era già chiuso».
«No!», mi ha detto lei. «Venga pure. Entri».
«Grazie», ho risposto. «Farò in fretta».
«Ma no! Si prenda il suo tempo con calma. Ho alcune cose da fare qui nel negozio».
Non c’entra con le doti, né coi luoghi di lavoro. E può anche essere stato un caso: l’incontro con una persona gentile, o a corto di clienti (ma in realtà mi ha detto che il negozio è aperto da undici anni).
Però.
Non voglio – non potrei – sostenere che gli irlandesi siano meglio degli italiani (e per quel poco che due settimane possono far capire, ho percepito confusamente una grande quantità di cambiamenti).
È che in Italia l’altro, la persona che incontri, quello con cui ti confronti, semplicemente non c’è. Non esiste. Non ha doti, punti d’interesse, motivi per attrarti, per spingerti a sprecare il tuo tempo ad ascoltarlo, a guardarlo, a parlarci; a meno che non ci sia qualcosa da ricavarne, temo.
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