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società complesse e realtà semplificate
Sono in fase masochista e leggo gli editoriali.
Ce n’è uno in cui si dice questo (ma tutto l’editoriale è tremendamente raffinato):
Nelle società complesse il consenso è visto come un bene inestimabile. In contesti come quelli dei grandi Paesi occidentali, gli interessi e i valori sono atomizzati ed è assai più facile che ad emergere siano le linee di frattura piuttosto che le iniziative di ricomposizione.
Domanda: è forse l’autore sorprendentemente a conoscenza dell’esistenza di «società non complesse»?
Ma questo è ancora niente. Più sotto c’è un avverbio traditore. L’avverbio del «noi siamo equanimi, noi non siamo come quegli straccioni che ce l’hanno con Lui. Noi sappiamo valutare in modo neutro. Sappiamo che è un po’ egocentrico, ma gli riconosciamo anche i suoi meriti».
Chi governa e gode – come è fortunatamente il caso italiano – di largo consenso, oltre a congratularsi con se stesso per le proprie capacità, finisce però per contrarre un obbligo.
Eccetera.
L’avverbio è «fortunatamente».
Non mi è chiaro perché il fatto che chi governa abbia un largo consenso dovrebbe farmi felice in se stesso, indipendentemente dal fatto che io condivida le sue scelte.
Ma in giro c’è gente infinitamente più intelligente di me.
Quel che non smette di stupirmi è l’uso ideologico, esclusivamente ideologico, delle parole d’ordine che dipingono con poche pennellate non faticose scenari che non importa mai se sono veri oppure no: basta che siano evocativi, vaghi, e sufficientemente tagliati con l’accetta da consentire ai lettori di ritrovarcisi dentro senza star troppo a sottilizzare se si è veramente d’accordo o no.
Di fronte a un «fortunatamente» scatta immediatamente la sinapsi: «ah, beh: se è una ciscostanza fortunata allora vuol dire che va tutto bene, il mio Paese sta bene, non mi devo preoccupare».
E questo senza che chi scriva faccia il benché minimo sforzo per argomentare perché ciò di cui parla sia una fortuna.
O perchè sia più importante avere il consenso che prendere decisioni condivisibili.
È chiaro che non voglio fare paragoni diretti: ma anche Hitler aveva il consenso.
Però non credo che nemmeno il più allineato dei giornalisti potrebbe mai aggiungere a questa considerazione l’avverbio «fortunatamente».
Il fatto è che noi giornalisti abbiamo un’enorme responsabilità: creiamo le parole d’ordine, creiamo consapevolezze diffuse e non argomentate, creiamo le vulgate, pensando che poi quando queste nostre operazioni arriveranno a precipizio noi potremo comunque salvarci perché la nostra contiguità col potere ci mette al riparo dalle conseguenze peggiori, e anzi continuerà a garantirci qualche ambìto privilegio.
E quanto agli altri, beh, che si fottano.
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