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il linguaggio è sostanza
Copio una porzione di un articolo Alessandro Portelli che, uscito sul Manifesto il 9 maggio, Marco Mancassola ha ripreso sul suo sito.
È molto bello (e vale anche come risposta affettuosa ad alcune idee che Andrea B ha avuto il gentile pensiero di confrontare con me).
«Il nostro paese è dominato della terribile serietà del poco serio. Berlusconi che fa cucù alla Merkel, che vuole palpeggiare l’assessora trentina, che dice ai terremotati di considerarsi in campeggio, che racconta sadiche barzellette sui campi di sterminio e sui desaparecidos non fa ridere non solo perché non è spiritoso, ma soprattutto perché questi sono discorsi seri, in cui ridefinisce la correttezza politica nella nuova Italia: sono >il linguaggio che dà forma alla pratica dei rapporti fra gli stati, fra i generi, fra le classi, fra la vita e la morte.
È tutto uno scherzo, è tutta una farsa – che si porta via con un ghigno le cose poco serie come i soldi della ricostruzione in Abruzzo, le politiche per la crisi, i morti sul lavoro, i posti di lavoro, i diritti e i salari, la dignità delle donne e dei migranti, la bambina ammazzata dai nostri ragazzi in Afghanistan, e altre pinzillacchere.
Forse «ci fanno» e non «ci sono» solo perché in questa commedia sta tutto il loro esserci. Dicevamo «una risata vi seppellirà». Avevamo torto. La risata sta seppellendo noi.
Di mio voglio solo aggiungere una cosa: dove eravamo, noi giornalisti, quando accettavamo questa mutazione?
Quando accettavamo di scrivere «governatore», per esempio, sapendo che in Italia esiste al massimo il presidente della giunta regionale?
Quando accettavamo di scrivere «premier»?
Quando scrivevamo articolini per spiegare quanta importanza avesse la volgarità di Berlusconi nel rinsaldare l’alleanza fra la gente e la politica?
Dov’eravamo noi giornalisti quando invece di spiegare le cose complesse le banalizzavamo, tranquillizzavamo la gente dicendo che non c’era niente da capire, che la sostanza era chiara e delle forzature istituzionali non c’era da farsi cruccio?
Dov’eravamo e dove siamo?
A cena con l’assessore? Al bar con l’editore? A teatro col biglietto gratis? Seduti sulla sedia del desk cercando di far le scarpe al collega? Al telefono con il portavoce del sindaco/assessore/presidente della Provincia/parlamentare di maggioranza/ministro/viceministro/sottosegretario a prendere direttive da servi quali siamo, in attesa di poter festeggiare a cena da qualche parte con le nostre signore? (Sì, questa figura di giornalista laido, non so cosa farci, mi viene maschio).
A volte la sensazione di essere complice di tutto questo – per quante possano essere state ed essere le occasioni in cui individualmente mi sono sottratta a ciò che considero uno sconcio, in cui ho parlato, detto, eccepito, discusso, contestato – mi schiaccia.
C’ero anch’io, quando per mio figlio si preparava questo Paese.
C’ero anch’io, quando i miei colleghi facevano questo a mio figlio.
E la mia consapevolezza che contro tutto questo la vittoria – anche parziale – era ed è impossibile mi sta schiantando.
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