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la libertà di essere servi
Non ho letto il rapporto di Freedom House di cui qui dà notizia il Corriere.it.
Lo leggerò, ma per ora – a un livello estremamente superficiale, e dicendo con chiarezza che è del tutto ragionevole che il rapporto spieghi e argomenti molto di più di quello che ne riferisce la sintesi brutale del Corriere – mi viene solamente da notare una cosa: non è accettabile che la libertà di stampa venga messa in esclusiva (o anche solo preminente) relazione con l’anomalia dell’esistenza (non fisica, ma imprenditorial-politica) di Berlusconi.
Dice il Corriere – cito – che, secondo la ricercatrice che ha condotto lo studio, il problema principale dell’Italia è Berlusconi.
Anche se con ciò si intende puntare il dito contro la concentrazione delle risorse pubblicitarie e sul monopolio dell’informazione televisiva, quest’affermazione – “il problema è Berlusconi” – è sostanzialmente incurante della realtà delle cose.
Ignora completamente che il problema non è “tecnico”.
Qui non si tratta di detenere la maggioranza delle risorse di un settore.
La questione, secondo me, è politica.
Solo ipotizzando l’esistenza di una questione politica (non tecnica) io riesco a spiegare il fatto che ci sia una così stupefacente quantità di giornali completamente schiacciati sulle posizioni dell’imperatore; che ci sia un numero così incredibile di giornalisti senza vergogna (e forse anche senza capacità, ma questa è pura illazione) che si contendono con riprovevole dedizione il titolo miserevole di Miglior Servo Dell’Anno; e che, in tutto questo, ci sia il sostanziale silenzio dell’opinione pubblica.
Qualcuno potrebbe dire che questa situazione nasce dal monopolio dell’informazione.
Può darsi.
Ma il problema non è (solo) chi detiene la maggioranza delle proprietà dei giornali e delle televisioni e delle radio.
Il problema sono gli intrecci fra le proprietà (e gli interessi che quelle porzioni di proprietà tutelano sulla scacchiera delle convenienze incrociate).
Se – poniamo – dieci soggetti hanno ciascuno il 9,9 per cento delle azioni di – poniamo – dieci giornali – non importa quanto piccoli e di quali minuscole città – e in ciascuno di quei dieci giornali uno di loro (diverso da giornale a giornale) ha la quota di maggioranza (di ben poco superiore a quella dei soci di minoranza), non vi pare che quei dieci abbiano costruito un meccanismo nel quale nessuno di loro è formalmente dominante, ma in realtà sono tutti dominanti in un unico sistema, e tutti insieme stanno decidendo delle sorti dell’informazione?
Dire che il problema è Berlusconi mi sembra troppo semplicistico, francamente.
Non perché lui non sia un problema, ma perché mi sembra molto più significativa e produttiva di conseguenze capillari e su larga scala la questione degli intrecci proprietari, in virtù dei quali si controllano porzioni molto ampie di territorio e di opinione pubblica. E anche, sì, di affari.
Basta semplicemente scrivere falsamente sul giornale di Taldeitalopoli che una banca va splendidamente; e di sicuro il giornale di Caiopoli risponderà che la banca locale è una meraviglia.
Bastano tre telefonate: una dei capi delle banche ai direttori dei giornali di Taldeitalopoli e Caiopoli, e l’altra fra i due direttori. Un accordino veloce, e “salutami tanto quel puttaniere di tuo cugino, digli che una sera dobbiamo andare a cena”.
Naturalmente i miei colleghi più scaltri spiegheranno con serena sicumera che le tivù e i giornali non spostano un voto.
Certo.
Come no.
Dev’essere per questo che loro continuano a fare i servi.
Domani ultimo giorno a Dublino.
“Mixed feelings?”, mi ha chiesto Margaret.
Sì.
Mixed feelings.
Esatto preciso al millimetro.
Mi sa che la donna è meno banale di quel che le piace fingere di essere.
A proposito: a Dublino tutti sembrano credere che Berlusconi è un personaggetto da circo. Tipo quei nani che raccolgono da terra il cappello dei clown e poi corrono dietro le quinte agitando le loro gambine.
Ridono, loro.
Di Bertie Ahern e del successore Brian Cowen, però, i buontemponi non ridono mica poi tanto.
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