fiducia, passione e cinismo: digressione irlandese

Piove. Tanto.
Ma l’insegnante di conversazione inglese – diverso da quello di ieri, e ovviamente diverso dalla sua collega Pippa per numerose evidenti (e in parte ottime) ragioni – non era affatto male, oggi.
A un certo punto mi ha fatto venire da piangere (ma sono una volpona, e ho mimetizzato benissimo questa minuscola alterazione emotiva).

L’argomento della conversazione di oggi sarebbe dovuto essere – signore e signori – l’immigrazione.
La fotocopia che è stata consegnata a me e all’altra studente, Martina di Colonia (dice che nella sua città piove sempre: è per questo che si dice “acqua di Colonia”? Okay, okay. Dicevo per dire) aveva domande del tipo “Fino a quale punto secondo te le persone che vengono da altri Paesi dovrebbero essere autorizzate a mantenere la propria cultura di origine”, o “Cos’è il razzismo?”, o “Cosa pensi della discriminazione positiva, cioè della politica delle quote?”.

Il tipo – 36 anni, nome asseritamente scozzese, mug termica in mano, maglietta a maniche corte (per dire: io ho la canottiera di lana a maniche lunghe, addosso), anellone al dito – ha capito in fretta che non era aria, e ci ha dato un’altra fotocopia, cioè il testo di una canzone di Bob Dylan intitolata “Most of the Time”.

A tratti mi sembrava di esere dentro una puntata di “Saranno famosi”. Avete presente quelle lezioni di letteratura inglese della signorina Nonmiricordocomesichiama? Quelle in cui gli studenti erano chiamati a rispondere a domande alle quali uno studente italiano di letteratura non avrebbe mai risposto in tutta la sua vita? Domande come “Cosa pensi che sia accaduto al personaggio di cui parla l’autore, per spingerlo a esprimere i sentimenti che esprime?”.
(A noi italiani chiedevano al massimo in quale giorno, mese e anno è stata scritta la Vita Nova, ma vabbè).

Bene.
Non so come, quest’insegnante Janek (forse ha la “i” e non la “j”) s’è messo a parlare con una passione incredibile di quanto orrore gli faccia lo sfruttamento del dolore altrui per la costruzione di film che spettacolarizzano una realtà “sanitizzata”, “resa igienica”, premasticata, a beneficio degli spettatori che si devono godere un filmetto sentendosi più buoni per il solo fatto che vengono a conoscenza di storie tristi ma – perlomeno per il principale protagonista – edificanti.

O cazzo, ho pensato.
Cazzo.
Ma allora al mondo c’è qualcuno che produce pensieri personali.
Aveva una tale partecipazione, nel dire queste cose, che veramente m’è venuto da piangere.
Dove la trova – mi domandavo – la forza per credere che quel che dice abbia un suo senso?
Come può credere che quello in cui lui crede meriti di essere detto, comunciato, offerto agli altri, di modo che possa nascerne uno scambio?

Le sue argomentazini erano così solide e sincere da farmi male.
Mio dio, ho pensato.
Questo ragazzo ci crede.
Questo ragazzo è convinto che la sua vita abbia po-li-ti-ca-men-te un senso.
Questo ragazzo – è stato il pensiero immediatamente successivo – non è italiano.

Non che in Irlanda se la passino bene.
Non dico questo.
Ma l’idea di disperazione – nel senso di “perdita totale delle speranze in un mondo migliore, o anche solo diverso” – che io sento, annuso, vedo, nella mia vita quotidiana in Italia contrasta pesantemente con l’energia che io sto vedendo negli insegnanti giovani di questa scuola.

Okay. Non posso generalizzare.
Però se i compagni di classe di mio figlio sono meno motivati alla vita sociale di questi ragazzi; se i compagni di mio figlio hanno meno sogni, energia, entusiasmo, passione, coinvolgimento, speranza, fiducia, e voglia di fare di questi trentenni e passa, beh, questo vorrà pur dire qualcosa.

Capisco che una scuola di lingua è il luogo perfetto per illudersi che il mondo è un posto migliorabile.
Però la passione con cui questo tipo di 36 anni riesce a parlare con due perfette sconosciute – e senza il benché minimo intento seduttivo, ovviamente – di argomenti così ostici e spinosi come i film di Ken Loach, per sviluppare una riflessione così articolata come quella in cui ha sostenuto che nessuno si può permettere il lusso di utilizzare il dolore degli altri per rendere digeribile e spettacolare una realtà complessa e indigeribile…
Ecco.
Quella passione è quella che io non trovo più parlando con le persone che incontro nella mia vita normale in Italia. E naturalmente non sto dicendo che l’Irlanda è un posto vibrante.

In Italia è una gara continua di cinismo.
Sul lavoro, dove bisogna dimostrare di non crederci, perché sennò vuol dire che come minimo sei ingenuo, se non addirittura stupido.
Per la strada, dove se rispetti le regole vuol dire che sei così idiota da non percorrere le scorciatoie.
Nella vita normale delle relazioni sociali, dove se ti appassioni troppo significa che hai tempo da perdere, che non sei abbastanza concentrato sulle cose importanti, come per esempio fare i soldi o decidere dove vai in vacanza, se alle Mauritius o alle Seychelles.

Io di questo cinismo non ne posso più.
Voglio di nuovo qualcosa in cui poter credere con la passione, il trasporto e la fiducia che avevo fino a qualche tempo fa.
Non ero una bambina.
Questi irlandesi con cui sto parlando in questi giorni non sono bambini.
Sono adulti.
Ma se venissero dalle mie parti li cucinerebbero allo spiedo.
Come i comunisti facevano con i bambini.
Uguale uguale.