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elogio del corpo e del calore
Guardavo le foto delle persone scampate al terremoto abruzzese di stanotte e una cosa mi ha colpito con la forza di una folgorazione.
L’ho sempre saputa; chiunque di noi, immagino, la sa e l’ha sempre saputa, ma la vita quotidiana non ci aiuta a tenerla presente.
E vederla – vederla ripetutamente uguale a se stessa in una serie di immagini struggenti – ce la riporta alla memoria con la violenza di una sberla.
L’unica cosa che consola è il corpo.
I sopravvissuti si riuniscono a coppie e si abbracciano, si tengono caldi e vicini. Usano il corpo dell’altro per sentirsi vivi e consolati.
C’è quasi sempre, nelle coppie che ho visto nelle foto, uno che si assume il ruolo del consolatore dell’altro: in genere è la persona più giovane, perché queste sono circostanze in cui emerge tutta la tenerezza per i vecchi (e i bambini), che ci viene voglia di risparmiare, di portare via, lontano dall’angoscia.
Che mondo assurdo, quello in cui i comportamenti socialmente accettabili impediscono il contatto anche minimo con il corpo degli altri se non in circostanze estreme o segrete.
Che stupidaggine privarci della consolazione del corpo, usandolo solo come maschera, trofeo, o apparenza di cui vergognarsi perché non all’altezza degli standard.
Ieri in piscina guardavo le persone.
I nostri corpi sono tutti usurati, ma sono belli lo stesso, anche quando non lo sono.
Sono i nostri! Non ne abbiamo altri, e da tutta la vita ci sono amici fedeli. Ci consolano, ci rendono vicini, ci aprono la porta dei sensi.
…e li copriamo perfino quando sono morti!
Io questo lo capisco.
È, insieme, una forma di rispetto per chi del suo corpo non può più disporre, e una forma di protezione di chi resta dall’inguardabile realtà della morte.
Ma fatico perfino a parlarne; quest’argomento tocca corde troppo dolorose per me.
…per te?
Per tutti, sì.
È che a volte penso di essere la persona più spaventata del mondo.
A volte, eh…