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l’importanza della complessità
Molti, in queste settimane, usano l’argomento «meglio un partito solo invece che due, perché questo semplifica il quadro» con la serena pacatezza di chi è convinto di sostenere un punto di evidenza così lapalissiana da non meritare spiegazioni.
In senso generale, non riesco proprio a capire cosa ci sia di male in ciò che è per forza, per sua natura, «complicato» come la politica (che implica universi morali e ideali di riferimento vari e complessi da far dialogare tra di loro utilizzando mediazione, compromesso e spirito di adattamento).
Ciò che è complesso non si può artificialmente semplificare semplicemente segandone dei pezzi.
In specifico riferimento all’occasione che spinge questi saggi a parlare, ho da dire che in politica può considerare buona la «semplificazione» solo chi immagina di essere dalla parte del potere.
Con un Parlamento che le leggi elettorali consegnano così spudoratamente all’arbitrio della maggioranza, solo uno stolto o chi si sente dalla parte del potere può salutare con gioia l’appiattimento delle differenze, l’azzeramento della dialettica, l’annullamento del contributo delle minoranze.
L’ennesima balla ideologica che fa sentire estremamente intelligenti coloro che la scrivono sulle prime pagine dei loro miserevoli giornali, e maledettamente alla moda quei lettori che si abbeverano alla fonte inquinata e radioattiva di simili stupidi idioti.
Tra poco tutti si convinceranno che un partito solo è meglio di due.
D’altra parte, già hanno l’impudenza e lo squadrismo intellettuale di chiamarsi «popolo».
Scusa, fammelo dire, se no scoppio:
tutto cominciò da quei dementi che in un Paese come il nostro (che, se qualcuno non se ne fosse accorto, è diverso dalla Francia e dalla Germania) ci vennero a raccontare la favola che bisognava passare dal sistema proporzionale al maggioritario “per favorire la governabilità”, e da quei fessi che per sentirsi europei e progressisti votarono a favore in quel maledetto referendum.
Senza il premio di maggioranza e i vari sbarramenti, oggi chi governa (destra o pseudo-sinistra) avrebbe bisogno del consenso. Invece abbiamo prove tecniche di dittatura.
E’ proprio vero l’idiozia ha un fascino speciale in questo Paese.
Sono completamente d’accordo.
Uno dei miei argomenti preferiti contro il maggioritario – che veniva propagandato come un fantastico sistema per «semplificare» il quadro politico in nome della craxianissima «governabilità» (appunto) – e a favore del proporzionale era questo: che se una coppia non va d’accordo, uno può pensare finchè vuole che costringendoli a rimanere insieme (in un unico partito o in un’unica coalizione, se si tratta di politica) loro riescono ad arrivare una mediazione, ma in realtà le divergenze restano, e sono poi l’unica cosa che effettivamente andrebbe affrontata per semplificare il quadro e favorire la governabilità di coppia…
In più, io – sarò anche all’antica – ero e sono convinta che il compito della politica non sia amministrare ma rappresentare.
Solo rappresentando gli interessi dei cittadini – i diversi interessi dei cittadini, singoli o in gruppi – si governa veramente, perché si è obbligati a contemperare le esigenze e i desideri di tutti.
Invece, con questa fottuta blindatura maggioritaria tutto quel che si ottiene è che non si contempera un beato ca*** e le giunte-i governi agiscono da imperatori che possono permettersi il lusso di non ascoltare minimamente le minoranze. Di non ascoltarle proprio, dico.
Solo un imbecille poteva pensare che blindando le maggioranze all’interno degli organismi rappresentativi si potesse andare in una direzione diversa da quella autoritaria.
Mi dicono (e mi dicevano): «Ma scusa: i Paesi in cui il sistema elettorale è maggioritario sono forse meno democratici?».
La mia risposta non può che essere questa: non lo so e non me ne frega assolutamente niente, perché la mia idea è relativa alle cose che io conosco di persona.
In più, se negli Stati Uniti vota il 60 per cento di coloro che ne avrebbero diritto (percentuali alle quali ormai, tragicamente, ci stiamo abituando anche noi, e se uno ci pensa è pazzesco, perché significa che quaranta persone su cento restano a casa perché sanno perfettamente che la politica non offre loro la benché minima chance di rappresentanza), a me sembra che ci possiamo anche raccontare che gli Stati Uniti sono il faro del mondo civile, ma secondo me nella migliore delle ipotesi si tratta di un’oligarchia.
Si può discutere se, date le circostanze di quel Paese, questa non sia la miglior forma possibile.
Magari lo è anche. Ma io cosa ne posso sapere? Non sono mica americana! E non basta: non sono mica una politologa!
Perciò mi prendo il lusso di dire: sarà bellissima, ma a me non piace.
In più (sì, non riesco a fermarmi…), quando sento inserire la durata di un governo tra i parametri sulla cui base giudicare la qualità di un Paese, a me viene da dire che della durata non mi interessa assolutamente niente, perché preferisco discutere delle decisioni che quel governo assume.
Se sono decisioni che io non approvo, me ne frego del fatto che gli altri Stati pensino «ehi, ma che bei governi stabili che c’ha l’Italia!».
Se il governo prende decisioni che non approvo, io vorrei che quel governo cadesse subito, immediatamente, ieri!
Il punto è che secondo me, siamo innamorati, o meglio ipnotizzati, dal fascino delle parole.
Prendiamo la parola democrazia: cosa significa realmente?
qausi nulla: letterlmente significa tirannia ( e non governo, che sarebbe alrimenti demoarchia )del popolo.
LAsciando da parte il perché unaparola con connotazioni negative sia diventato il sinonimo sdi ” buono, giusto, infallibile” insomma un dogma religioso, prendiamo atto di questo.
La democrazia è ( o si suppone che sia) il bene.
Però dire democrazia è come dire cane . Esistono i chiuahaua ed i pitbull, e non sono la stessa cosa.
LA democrazia dovrebbe rappresentare il popolo.
Ma anche le dittature rappresentano il popolo.
In una dittatura si presume che il geverno rappresenti la maggioranza, e la minoranza inquanto tale, non abbia diritto di parola e rappresentanza. Il governo è il popolo (e questo getta una luce sinistra sulla scelta di nomi di partito che citino il popolo e non il partito, ovvero no si propongono come parte, ma come tutto)e chi non è governo non è popolo. E’ minoranza ed in qaunto tale, destinata alla non rappresentanza ( e nei casi peggiori a qualche galere o campo di concentramento)
In una democrazia rappresentative,invece, tutte le posizioni dovrebbero essere rappresentate,
I regimi che limitino, in varie forme questo diritto, si allontanano dal concetto di democrazia rappresentativa, per avvicinarsi alla democrazia totalitara, che è poi dittatura, ovvero la negazione della democrazia.
E questo lo dico da politologo ;-))
Hai ragione, Pablo.
Come in effetti scrivevo nel precedente commento, anch’io sono dell’opinione che il problema sia la rappresentanza e non il concetto di democrazia in se stesso (tant’è che in effetti mi pare di non aver nemmeno mai scritto, in quel commento, la parola «democrazia»).
P.s. Ma se ti chiami Paolo, come mai il tuo nome conduce all’url di un blog con un unico post, asseritamente scritto da un Davide consulente informatico trentenne? 😉
rsiposta al PS
Perché sono talmente preciso che sbaglio a scrivere il nome del mio blog.
Adesso rimedio e grazie della segnalazione
(e che figura da cioccolataio :-(( )
Guarda che il link è uguale uguale anche adesso, eh…
Forse è colpa della mia cache, boh.
ciao, io era tra quei dementi ed idioti. Andai pure a fare propaganda per le strade. Ci sarebbe da discutere sui partiti che all’epoca, per motivi tattici, appoggiarono il referendum, ma poi fecero di tutto per distruggerne i risultati e lo spirito. Puo’ darsi che fossimo ingenui ed avessimo sbagliato tutto. Certo io non immaginavo Berlusconi. Quello che so, pero’, e’ che avevamo ragione su almeno un punto – che credo pure a voi stia a cuore. Il referendum Segni permetteva agli elettori di un collegio uninominale (di dimensioni piccole: una citta’ di medie dimensioni, una piccola provincia) di *scegliere* un candidato che li rappresentasse. TRa chi appoggiava il referendum, molti lo facevano per motivi tattici, senza davvero crederci. Capii subito che quello era il vero punto che i partiti dell’epoca non potevano sopportare: dare in mano agli elettori la scelta del loro rappresentante. Quel meccanismo, nella riforma Segni, c’era. E’ stato smontato pezzo per pezzo senza particolari opposizioni, perche’ alla fine fa comodo a tutti predeterminare le liste. Ecco, non era tutto da buttare, forse quel referendum. Scusate, sono davvero di fretta e ho buttato giu’ queste cose in maniera forse poco coerente. Magari mi spiego meglio stasera. kalle.
Ciao, Kalle.
Sono sicura che le intenzioni di moltissimi fra quelli che appoggiarono il referendum fossero le migliori.
Però l’idea che esista una rappresentanza territoriale mi lascia – mi lasciava anche, per la verità – piuttosto perplessa anche senza bisogno che qualcuno – molti, moltissimi, o tutti: non ha nessuna importanza – si desse da fare per remarle contro.
Non riesco a credere che i territori, per quanto piccoli possano essere, esprimano interessi comuni in ragione esclusiva della loro «territorialità», appunto.
Se fosse vero, i miei interessi dovrebbero essere identici, uguali, o almeno in gran parte compatibili con quelli, per esempio, del mio datore di lavoro, che magari abita a trecento metri da me.
E invece io penso che il principio della rappresentanza territoriale sia la mazzata più ideologica e più radicale che sia stata data al principio della rappresentanza politica.
La mia città non ha interessi comuni.
Per qualcuno può essere meglio cementificare qualunque giardino; per qualcun altro può essere meglio aprire mille parchi pubblici. Prendo appositamente i due estremi surreali di una linea di pensiero.
Ciò che al massimo si può ottenere – ed è in effetti ciò che con queste leggi si ottiene – è la rappresentanza esclusiva (e-sclu-si-va) degli interessi della maggioranza delle persone (magari opportunamente orientate a credere che i loro interessi siano quelli di tutti e che il pensiero sia unico, e che chiunque la pensi diversamente è un bastardo).
Il principio della rappresentanza territoriale mi sembra il primo passo che sia stato fatto nella direzione dell’«aziendalizzazione» del paese.
Mi spiego meglio.
Dire che un territorio è portatore di interessi comuni significa negare le differenze, negare le condizioni differenti delle persone.
È un passettino sulla strada che condusse, all’inizio, a dire timidamente che per fare stare meglio (?) il paese bisognava aiutare le sue aziende.
Far guadagnare di più gli imprenditori, ma naturalmente senza predisporre – ammesso che sia possibile – nessun meccanismo che garantisse che gli eventuali profitti in più che si fossero generati venissero messi a disposizione del «territorio» nelle forme più varie.
Poi c’è stato che se le aziende stanno bene allora l’economia gira, e se l’economia gira stai bene anche tu.
Poi che le aziende devono poter licenziare, perché altrimenti l’economia non gira, e se l’economia non gira tu non stai certamente bene.
E adesso c’è che le uniche grandezze sociologicamente rilevanti sono diventate le «famiglie» e le imprese.
Stop.
I cittadini non esistono.
Tant’è che il titolo di «cittadino» viene concesso volentieri perfino dai più razzisti dei nostri amministratori comunali d’Italia anche agli stranieri senza permesso di soggiorno: perché il termine è completamente svuotato di senso.
No, Kalle.
I territori non scelgono un candidato che li rappresenta.
Non ce n’è uno solo.
Non ce ne può essere uno solo.
Qui, per esempio, dovrebbe rappresentarmi un leghista? Un forzista? Un fascista? Un integralista cattolico?
No.
«Semplificare» (già ho qual che problema con l’idea di semplificazione, io) con le regole è una pia illusione che conduce alle stronzate che vediamo.
Tipo a Brunetta e alle sue faccine.
Alla Gelmini e al suo grembiulino.
All’antiparlamentarismo della lattina di cocacola.
Eccetera.
Il problema non è solo il numero dei partiti ma è, soprattutto, il numero delle idee e poiché viene pensata una società politica con una sola idea, o meglio ad una sola idea viene riconosciuta la dignità di esser idea politica poiché giusta razionalmente in origine il percorso verso il partito-stato, il partito-popolo è chiaro chiaro e, incluso, nella democrazia di oggi.
L’inizio, ohionoi, possiamo dire che andrebbe collocato non nel sistema maggioritario (capisco che qualcuno mentre sosteneva il sì non si fosse avveduto di chi era dietro la porta, ma la classe dirigente che vi starebbe a fare?) ma nel referendum sulla preferenza unica. Tra le infinite colpe di Draxi e del craxismo sicuramente vi è quel tema della governabilità ma non quello di aver aderito alla preferenza unica ed al maggioritario. Ma, per così dire, egli fu immediata ed in parte prima vittima di quel clima da lui creato… Forse nella foga di modernizzare il paese credeva di poter tracciare una linea nera sopra le classi dominanti
Comunque è vero che la probabilità che la politica sia condannata in due partiti, di cui uno solo conta davvero, non è così remota.
L’unica, modesta, consolazione è che la ciambella potrebbe pure non riuscire con il buco… ma dev’essere l’ottimismo della volontà
Draxi è un refuso meraviglioso!
Hai ragione, forse l’inizio è nella preferenza unica; ma l’idea che si possa comunque amministrare la cosa pubblica con il criterio della maggioranza e non della mediazione mi fa rabbrividire.
Lo immagino. Qualcuno crede che la società sia di alcuni e confonde democrazia con dittatura, dopo brevi passaggi nella tirannia che mantine comunque il suo fascino popolare.
Sono d’accordo: è l’aziendalismo l’ideologia vera del berlusconismo, ovvero sono socio di maggioranza e faccio quel che mi pare fino a che non mi cacciano via.
Poi questo si fonde anche con i rimasugli del fascismo e del populismo legaiolo, ma non è fascismo, né populismo.
PS
Ah Federica, sì è la tua cache!
nell’indirizzo c’è un la di troppo.
PErò certo ce quello ha scritto un solo post ma è un post che rompe!
(scusate per l’utilizzo OT)
Pablo!
Ma lo sai che mi sono accorta solo adesso che non sei nel mio blogroll?
Ma che cafona!
Appena ho un secondo emendo: scusami tanto.