Tags
Related Posts
Share This
un post sulla scrittura (una volta tanto)
Sul sito (su uno dei siti…) di Giulio Mozzi, a margine di un intervento di Franz Krauspenhaar su Nazione indiana, è nata una discussione sul tema di quale parentela esista fra l’essere scrittori e l’essere «professionisti» (le virgolette non riesco a evitarle).
All’ultimo dell’anno, gli amici dove siamo stati a festeggiare mi hanno fatto la domanda tipica, quella che tutti tendono a fare anche a una donna che ha appena partorito: mi chiedevano quando avrei fatto un secondo libro.
In quel momento mi sono accorta che la risposta ce l’avevo pronta. Segno che ci avevo pensato senza saperlo (il che non so bene se mi fa onore).
Comunque.
Ho risposto che il libro lo scriverò quando avrò isolato in modo soddisfacente – e senza che lo scriverne minacci di provocarmi sofferenza – quello che ho da dire, quello che so di dover dire.
Bisogna lasciare alle cose il tempo di decantare e di depositarsi dentro, credo, per riuscire a dirle senza lacerarsi.
Questo non ha niente a che vedere con l’idea che chi scrive è un tipo tristanzuolo, travagliato e autisticamente imprigionato in una spirale di dolore parossistico (sento che qua e là l’idea «tira» molto); ma soltanto con la mia personale predisposizione a raccontare di preferenza cose che hanno avuto un impatto sui miei sentimenti e su ciò che di importante ho vissuto.
In ogni caso – con l’imbarazzo moralistico di chi fatica a riflettere su questioni così smaccatamente legate al «privilegio» – riporto qui di seguito la cosa che ho scritto là.
Ecco.
Io ho scritto un libro che è stato pubblicato; però non saprei dire se sono un’autrice, una scrittrice, una «scrivente» o qualcos’altro (certo: sono disposta a pensare che sia un problema mio…).
Il lavoro con cui mi guadagno da vivere, in effetti, è un altro, e ha con la scrittura, di cui ugualmente si nutre, un rapporto molto diverso.
Immagino che sia normale che per me il problema dell’identità sociale – se posso chiamarlo così – si inquadri in una dinamica interiore diversa da quella che oscilla tra le coppie di concetti «arte»/«non-arte», «scrittrice»/«non-scrittrice», o «autrice»/«non autrice».
E sono sicura che interrogarsi su di sé, sul proprio senso e sul proprio ruolo abbia un suo senso.
Però.
Non so se sia un bene, francamente; ma siccome al momento credo di non avere alternativa, va bene così: io non riesco a liberarmi dall’idea che per scrivere sia assolutamente necessario, imprescindibile, avere qualcosa da dire, più ancora che avere la padronanza di un metodo o di una «professione», comunque si voglia intendere la parola.
Ovvio, comunque, che è meglio dirlo bene piuttosto che dirlo male.
Che però ciò che si ha da dire venga detto in un modo che a qualcuno (ma a chi, però, posso solo immaginarlo) appare arte, beh, questa mi sembra un’altra cosa, benché strettamente legata – nei fatti, e non nella sostanza, credo – alla questione del vivere della scrittura oppure no.
Si vive della scrittura in sé – e non delle proprie prestazioni professionali collaterali rese possibili dal fatto di avere scritto – se qualcuno, qualche autorità di qualche tipo, riconosce a ciò che abbiamo scritto un valore che a qualcuno piace magari anche considerare artistico ma forse è almeno in molti casi (ipotizzo arbitrariamente) più simile a un valore commerciale misurato sul metro della vendibilità più che su quello dell’arte.
Se non altro per difetto d’esperienza di entrambe le sfere, non sto istituendo gerarchie fra l’ambito dell’arte e quello del commercio.
Dico, però, che mi pare evidente che il cosiddetto successo editoriale è conseguenza – oltre che di un valore intrinseco delle opere, misurato però su terreni non necessariamente «artistici» (e sono consapevole di usare una definizione ambigua) – anche di una consapevole decisione di «investimento» su quell’opera.
E ciò che soprattutto mi pare importante è che un cosiddetto successo editoriale è molto spesso esito del fatto che l’editore e/o la persona che ha scritto sono inseriti (o inseribili ipso facto senza fatica per le caratteristiche di «vendibilità» dell’opera ma anche del «personaggio») in un reticolo di relazioni di potere capaci di dare all’opera spinta e visibilità.
Sono convinta che molte cose belle non arrivino a esser lette nemmeno da dieci persone, e che cose veramente brutte e banali incontrino successo perché sono fatte da uomini e donne di potere, sostenuti dalla loro rete di relazioni.
Quanto alla questione del genio, della sregolatezza, o della pretesa artistica, non ho niente da dire: non provocatoriamente, ma proprio perché non ho risolto dentro di me la questione relativa a ciò che sia l’arte e ciò che sia l’artigianato; se il muovere emozioni profonde basti a definire arte ciò che ha agito; se arte è ciò che almeno tot persone ritengono che arte sia; se arte sia ciò che regge al tempo; che s’impone nel gusto…
Dubito del genio, che considero estremamente fragile e volatile; e per problemi miei m’infastidisce la sregolatezza programmatica.
Credo però nell’esistenza del talento, ovvero di ciò che rende a qualcuno facile fare una cosa che per molti altri è difficile, ma non so in che rapporto esso sia con l’arte.
No.
Più ci penso, più resto convinta che per scrivere bisogna avere qualcosa da dire. È ovvio che non è necessariamente qualcosa di capitale, di importante per tutti, e che nella decisione di dire o di non dire bisogna imporsi di tacere molte più volte di quelle in cui si può dare a se stessi la chance di parlare.
Ed è chiaro che anche così non c’è nessuna garanzia di dire cose che interessino a qualcuno.
Il «mestiere» e la «professionalità» sono cose assolutamente fondamentali, ma sono pre-condizioni che, mi sembra, attengono alla sfera dell’abilità tecnica. Che da sola, però, produce la maniera. E forse anche forme inquinanti di ipertrofia dell’io.
Non ho nulla da dire sulla globalità di quello che hai scritto, anche se mi lascia qui e là un poco dubbioso: d’altra parte, io non ho scritto libri, quindi il mio commento potrebbe suonare appena uno sfogo della mia solita vena polemica (che in realtà è desiderio di capire, d’imparare, di essere sorpreso…). Io ho contatti con l’arte (o coll’artigianato) attraverso espressioni completamente diversi, ed è normale che mi ponga la questione diversamente.
Vorrei solo chiosare quel “resto convinta che per scrivere bisogna avere qualcosa da dire”; perché a me quello che infastidisce di molti libri è il fatto che mi pare che abbiano forse qualcosa da dire ma non abbiano “essere”. Per esempio, ci sono scrittori che mi incantano descrivendo un oggetto, perché mi danno accesso ad un mondo complesso, spesso, pluridimensionale, ed altri che raccontano grandi amori e grandi battaglie e tutto rimane sulla carta, non mi coinvolge, non mi riguarda.
L’abilità tecnica non mi pare la sola cosa che produce l’ipertrofia dell’io. Anzi, talvolta è il contrario: è l’immagine ipertrofica di sé che spara con un pezzo da 90 palline di polistirolo.
Sono riuscito a rendermi (ancora) antipatico?
Ciao, cometa
No, figurati.
Ho scritto quella cosa perché mi infastidisce molto la forma senza sostanza, la pelle senza carne.
Quel che voglio dire è che la forma conta, eccome; ma più che il contenitore conta il contenuto (ah, che bisticcio di parole).
Naturalmente una cosa è un trattatello e altra cosa è un romanzo, nel quale è gradita una grande attenzione alla forma, se non altro perché al lettore ne può derivare un maggior piacere di lettura.
Le due dimensioni – il dentro e il fuori – devono avere un’armonia, una corrispondenza; e fra chi ha scritto e chi legge deve crearsi una «pasta» sentimentale ed emotiva comune.
Credo che ciò che definisci «accesso a un mondo complesso, spesso, pluridimensionale» sia – magari mi sbaglio – interno a questa condivisione, che secondo me è la combinazione di due fattori: l’abilità (genericamente e tecnicamente intesa: se questo implichi l’arte, l’artigianato o cos’altro mi è ignoto, però) di chi scrive, e il fatto che chi scrive peschi in universi compatibili con quelli di chi lo legge.
Mi sa che è questo che crea quel che tu chiami l’«essere» di una storia.
E non credo che possa prescindere dal contenuto.
Il porsi il problema di «scrivere artisticamente» mi sembra supponenza estetizzante che pretende di prescindere dal contenuto.
Con «aver qualcosa da dire» non intendevo far riferimento ad argomentazioni solide o alla concettosità (anzi!), ma solo a cose intensamente «sentite», emotivamente calde.
Ovvio che la tecnica c’entra.
C’è modo e modo, infatti, per dirle.
Nelle parole c’è un significato, c’è una musica, c’è un corpo: non possono essere private di un elemento di questi.
Ognuno di noi ha di quel significato, di quella musica e di quel corpo diverse percezioni e diverso giudizio: quando le tre cose stanno bene insieme, sono armoniche, tanto per chi ha scritto quanto per chi legge, allora c’è «essere», credo.
Ma resta che è il virtuosismo ciò che mi sembra creare l’ipetrofia dell’io a cui facevo riferimento.
armonia…
dentro/fuori…
intensità interiore e aspetto accattivante…
mi fermo qui: è l’equilibrio tra anima e forma che rende l’arte.
Altrimenti si tratta di urla inarticolate o di asettici gorgheggi.
Non è da tutti avere qualcosa da dire e nello stesso tempo riuscire a ferlo in modo piacevole.