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il mio posto non è qui
Qui si parla di fatti miei.
Non so nemmeno se faccio bene, ma vabbè.
Va così.
Credo che sia difficile capire in diretta quale sia la fase della vita che si sta attraversando; darle un titolo, scriverne un sommario.
A me è al massimo capitato di capire nebulosamente che una fase era una transizione da qualcosa a qualcos’altro, e per di più vivendo in momenti distinti l’inevitabile sentimento di lutto per un momento che finiva, per una fase che veniva sepolta, e l’ansia per una fase che ancora non riuscivo a capire come sarebbe stata e in che direzione mi avrebbe condotto (e quanto difficile m’è sempre sembrato accettare quest’incertezza).
Adesso mi sembra di essere in uno di questi periodi di transizione.
Di passaggio.
D’altra parte, il passaggio si addice anche all’età.
Il lutto se n’è andato.
Ogni volta che ne parlo, mi sembra così esagerato il termine «lutto» senza che nessuna vera morte – fortunatamente – si sia verificata; ma lo so: questi sono i miei soprassalti di moralismo (e i miei lutti veri ce li ho ben avuti anch’io…)..
In effetti, quasi tre anni fa ho realizzato che era morta quella Federica che pensava che il lavoro avesse centralità assoluta, fosse un modo per darsi identità sociale, come se l’identità sociale fosse tutto ciò che effettivamente contava nella vita.
Come se amare ciò che si è, amare ciò che si fa e amare le persone con cui si attraversa la vita fosse una cosa su cui si potevano costruire solo sentimenti, emozioni, stati d’animo, ma non – che errore – identità.
Per quest’ingenuità, però, mi sono perdonata: temo che sia inevitabile; soprattutto quando l’identità familiare non piace abbastanza; quando l’identità familiare, per le ragioni più varie, mette in condizione di (pensare di) dover rimontare uno svantaggio.
Finiva – era finita – la fase di una che aveva creduto che da qualche parte, nella vita, sarebbe arrivata. E che il luogo in cui approdava le sarebbe piaciuto.
Una che credeva – come posso dire? – alla giustizia, alle cose vere.
Un’idea quasi meritocratica. No: titanica.
Del tipo: okay, Fede; quanlunque cosa accada, qualunque difficoltà tu possa avere ce la farai.
Comunuqe.
Dovunque.
Perunque.
La statistica mi dava ragione, peraltro.
Poi ho capito altre cose, troppo lunghe da spiegare.
Più o meno le ho messe (non tutte!) nel libro che ho scritto.
E per il fatto di avere esso contenuto cose sentimenti e sensazioni, convinzioni e stati d’animo che erano già esistiti, il libro – piuttosto che un’ipotesi di futuro, una via mezzo tracciata – ha rappresentato la traduzione materiale della fine di una fase.
Ha messo un punto.
Full stop.
M’ha lasciato come orfana in mezzo al fiume, con la sola capacità di stare a galla, ma senza farmi capire se era ancora possibile tornare indietro alla riva dalla quale ero partita, o necessario muoversi verso l’altra sponda, verso luoghi che nemmeno sapevo come si chiamavano e che paesaggio avevano.
Però tornare indietro è una cosa che non sono mai riuscita a fare.
Galleggiare sì.
È che per galleggiare ci si può mettere in posizione verticale spendendo un sacco di energie, convinti che tutto ciò che si è fatto si fa e si farà meriti ed esiga sforzi sovrumani (altrimenti è troppo facile, son capaci tutti), oppure in posizione orizzontale, lasciandosi portare dall’acqua e guardando nel frattempo il cielo.
Dopo molto tempo in verticale, adesso mi son distesa in acqua.
È più facile, più naturale; ma finché son qui a metà faccio mille esercizi di nuoto per prepararmi alla traversata, e faccio comunque provvista di tutto il cibo che mi servirà per l’altra parte del viaggio verso l’altra sponda.
Adesso l’altra riva la vedo, solo che non so quanto tempo mi occorrerà per raggiungerla.
So con certezza che non posso accettare la vita com’è adesso per me.
Non posso accettare la mia vita qui; non posso accettare, non ce la faccio, il piano inclinato dell’inerzia verso il pensionamento; la quiete.
Una volta, in una recente assemblea di redazione, un collega disse che avremmo dovuto senz’altro fare una certa cosa, poiché «semo tuti costretti a star qua dentro fin alla pension».
La sua rassegnazione a un destino segnato dalla quotidiana battaglia per (o contro: non c’è differenza, in termini di energie sprecate) la sopraffazione mi fece gelare il sangue. Gli dissi «Forse sei costretto tu. Non tutti noi».
Non credo che abbia capito.
Immagino che abbia creduto che volevo tirarmela, che non sapevo apprezzare il privilegio.
In realtà, quel che a me manca è il fisico per rotolare giù.
Qualsiasi centimetro di vita tendo a percorrerlo intenzionalmente, come risultato di una scelta. Fosse anche la scelta di abbandonarmi all’istinto.
Le cose che – adesso, dopo la chiusura di quella fase – so di dover fare e voglio fare per passare dall’altra parte del fiume sono moltissime.
E la grandissima parte di esse è preliminare a qualunque approdo dall’altra parte.
Poi, arrivata là, mi resterà da capire la cosa forse più difficile da capire: chi mi interessa veramente essere, per il prossimo pezzo di vita.
Quando sono stata a Milano alla presentazione del libro di Fabio Bussotti («L’invidia di Velazquez»), Fabio mi ha ringraziato al microfono per il fatto che ero presente. Mi ha definito «scrittrice», e io mi sono sentita terribilmente imbarazzata.
È vero che nella mia intera vita non sono mai stata capace di incassare con grazia qualcosa che anche vagamente potesse somigliare a un complimento.
Ma nelle parole di Fabio non era il «complimento» ciò che mi imbarazzava, perché essere scrittori non è in sé né una cosa bella né una cosa brutta.
Mi sembrava di aver quasi usurpato un titolo.
L’imbarazzo nasceva da lì.
Mi sembrava che definirmi scrittrice fosse assolutamente eccessivo, a dispetto del fatto che – comunque – un libro io l’ho scritto davvero, ed è stato anche pubblicato.
Quando avevo appena cominciato a fare la giornalista, un giorno andai con il mio attuale marito all’ufficio anagrafe per rinnovare la carta d’identità.
L’impiegata mi chiese: «Professione?».
Non sapevo cosa rispondere.
Io stavo già lavorando, e i libri li avevo già chiusi: non potevo più definirmi studentessa, ma nemmeno disoccupata, perché lavoravo. Neanche giornalista, però: perché avevo cominciato da poco e non ero nemmeno pubblicista (poi, tra l’altro, son diventata direttamente professionista, e all’epoca già sapevo che mi interessava il contratto di praticantato e non la collaborazione…).
Cos’ero, insomma?
Capisco che dentro c’era un problema di identità.
Io penso che tutta la vita sia un problema d’identità, d’altra parte.
Perché la verità è che l’identità è mutevole, e a volte i suoi cambiamenti ti sorprendono, arrivano quando ti sembra di non essere preparato, e invece senza saperlo chissà quanto ci hai lavorato.
Comunque.
Marco disse «beh, di’ che sei giornalista, no? È la verità!».
Aveva ragione, ma io non potevo, perché per essere giornalista bisognava aver fatto un praticantato che io non stavo facendo e aver superato un esame di Stato che io, ovviamente, non avevo ancora superato. Sapevo che giornalista sarei diventata; ma non lo ero veramente ancora nel pieno senso della parola.
Riflettemmo.
Mediammo.
Mi definii «cronista»: qualifica non coperta da alcun ordine professionale, ma assolutamente veritiera.
Lo «scrittrice» di Fabio, insomma, è come il «giornalista» di Marco.
È ciò che mi sembra di voler essere; ma so che prima devo occuparmi un altro po’ della mia vita, facendo altre cose, salendo altri gradini. Indipendentemente da quante altre storie forse pubblicabili siano già scritte, complete o no, sull’hard disk di questo computer.
E facendo le curve, chissà quante cose ancora scoprirò.
Ho bisogno di capire quanto credo nella mia capacità di creare.
Di astrarmi da ciò che vivo, per vivere anche dentro le storie, invece che in cose che mi avvitano sempre più saldamente al suolo, mi incollano alle necessità del realismo e alle nauseanti pastoie da mammetta-mogliettina-giornalistina-perbenina-del-nordest, mi tolgono l’aria che mi serve a sognare, e a fare di quel sogno la luce che c’è là in fondo, quella che illumina la strada.
Questo blog mi tiene attaccata a terra, e adesso – evidentemente – ne ho bisogno; altrimenti non lo terrei aperto e vivo.
Il blog mi accompagna nella transizione, credo.
Mi impedisce di fare spallucce a quel che succede, e perciò ha un suo modo di essermi pesante.
Mi dà un luogo dove indignarmi ha un suo piccolo senso, dove far del sarcasmo ha un suo perché, dove essere quel che sono può essere un lusso che non crea ansie da aspettative deluse (se non altro per difetto di feedback…).
Ma la transizione finirà.
E mi staccherò.
E riuscirò a volare senza zavorra.
Portandomi dietro la mia passione e i miei amori, che sono leggeri leggeri e fanno fresco d’estate e caldo d’inverno.
Il mio posto non è qui.
Saperlo mi fa piangere, ma mi rende felice.
Mi fa sentire vitale.
Non è per niente facile guardarsi dentro.
In bocca al lupo Federica, qualsiasi cosa decida di fare.
Crepi il lupo.
Grazie.
conosco bene alcune immagini e sentimenti che racconti
ma non mi sento di scriverne così apertamente
quando me la sentirò ti invierò una risposta privata, se non ti spiace
per ora ti abbraccio
cometa
Grazie. I cambiamenti son belli e faticosi.
Starei quasi per permettermi di scriverti che, ohinoi, la via solitaria alla salvezza molto rara e che il nostro posto è sempre dove siamo. Insomma si può andar più in là ma non troveremo un mondo migliore.
Però, però non certo un disincentivo alle scelte altrui.
Non cerco una via solitaria alla salvezza, sai, e neanche un mondo migliore.
Sono d’accordo con te che non c’è.
Quando un progetto ha esaurito per mille motivi la sua spinta propulsiva non riesco a rotolarci dentro in discesa dicendo a me stessa che, tanto, ormai ci sono entrata e questo è il mio posto.
Mi viene più naturale domandarmi cosa posso fare per essere più felice di me, per assecondarmi di più.
Mi viene più naturale ascoltare le ragioni del mio senso di estraneità – chiamiamolo così – per farne carico a me stessa e non a chi vive vicino a me.
Mi viene più naturale tentare di essermi d’aiuto, non dare niente per scontato, farmi le domande che mi vengono spontanee e cercare le risposte.
Non è vero che il nostro posto è per definizione quello in cui ci troviamo.
Il senso di sradicamento è una ricchezza, secondo me.
È un peccato vivere una vita «inerziale», come se quando si percepisce esaurita la carica che abbiamo ricevuto alla nascita non avessimo altra scelta che attendere lo spegnimento dei nostri motori, entrando in modalità risparmio energia.
Non sto dicendo che questo sia quello che intendi tu, comunque.
semplicemente, queste cose sono quelle che mi sono uscite spontanee dopo aver letto le tue parole.
Penso che sia del tutto possibile sentirsi fuori luogo e fuori tempo nel luogo anche non-fisico in cui si sta; penso che arrivi il momento, nella vita, in cui occorre (necesse est, proprio) perimetrare il campo del nostro «possibile» e del nostro massimo possibile benessere, permettendo l’accesso solo alle cose, alle situazioni e alle persone che lo meritano (a nostro insindacabile giudizio, e che si fotta il senso di giustizia).
In parte lo sforzo è di impermeabilizzazione (e questo l’ho fatto molto a lungo; i risultati mi sembrano – dato il punto di partenza – onestamente soddisfacenti); in parte di assottigliamento dell’epidermide, di modo da consentire a noi stessi di essere ricettivi e sensibili, creativi e veri, caldi e progettuali.
non accontentarti mai.
so che credi in quello che fai, e saprai affrontare altre salite.
in bocca al lupo, di cuore.
a.
Grazie, Aldo.
Ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che le cose assumano un aspetto diverso.
Ma arriverà quel momento.
Ma tu hai comprato il computer???
Se mi posso permettere, questo è sinceramente il più bel post scritto da una donna che io abbia mai letto in tre anni di bloggate (scusami per l’orrendo neologismo ma questo m’è venuto). E anche la tua risposta al commento di DALOVI è ancor più bella di quella che ci si potesse aspettare in un sintetico “reply”. Complimenti vivissimi Federica!
Grazie.
Ma perché dici “da una donna”?
Beh, perchè c’è anche ovviamente il più bel post scritto da un uomo che io abbia mai letto (sempre nei tre anni di bloggate). Comunque, a parte la classificazione uomo-donna, lo ribadisco, il tuo post è dar far leggere nelle scuole di giornalismo, da far conoscere a tutti quelli che anelano infiltrarsi in qualche redazione di questo o quel giornale. Solo leggendo il tuo post potranno ancora avere dei dubbi sulla scelta che si apprestano a fare…
Sono veramente curiosa di sapere perché ci hai visto dentro così tanto del lavoro.
ma intanto vado ad addormentare mio figlio: ogni volta che c’è qualche giorno di vacanza i suoi ritmi assecondano i miei, e finisce che l’ultima sera va a letto tardissimo e l’indomani sono cazzi acidi per tutti.
Buonanotte, grazie ancora.
Ogni volta la tua capacità di utilizzare le parole per esprimere pensieri che si infilano nei più insospettati meandri di abitudini sociali, costumi privati, inerzie inconfessate disvelandoli e portandoli alla coscienza collettiva con raffinato acume mi fa rabbrividire. Di ammirazione.
Ti sono grata. Anche per aver deciso di condividere i fatti tuoi e aver creato un’occasione di riflessione su temi che sento come fondamentali.
Mi annoto passaggi che trovo utili alla fase della vita che io sto attraversando. Mi piace il termine transizione: suona più positivo, ha in sé una carica progettuale e dinamica che il più definitivo termine fallimento (da cui tendevo a sentire descritta la mia condizione tempo fa) non contiene. Ha a che fare con la dimensione temporale, nell’ambivalente significato di ineluttabilità della decadenza del corpo cui si associa una struggente angoscia, e di cura delle ferite. Ha a che fare anche con l’esperienza del lutto.
Per la mia storia personale, nulla come una morte improvvisa mi ha fatto comprendere che l’istante è l’unica realtà percepibile. E’ come se violentemente, traumaticamente si sbattesse la faccia contro una verità durissima che sta dentro la vita, che è il senso stesso della vita, ma che solitamente non viene guardata con tutta questa intensità. La morte ha richiamato anche il lutto per la perdita di me bambina, di me gravida, di me nutrice. E’ rimasto il sapore lieve di una tenerezza fugace, come acqua che non si può trattenere con le mani, come il tempo che cerco di inseguire… E’ rimasto il desiderio vitale di coltivare un nuovo sogno, che possa ancora “illuminare la strada”…
Penso che la vita sia fatta di incontri (talvolta splendidi e inaspettati) e di separazioni, nell’incessante ricerca di se stessi. Il nodo che ancora non ho sciolto è la capacità di negare l’accesso alle cose, alle situazioni e alle persone che non lo meritano. E’ questa la sfida presente con me stessa, e in definitiva è forse il senso di ogni scelta: quella di selezionare il “minimo indispensabile, prendere quel che serve e gettare quel che é troppo” (cito un mio amico appassionato di scrittura).
Mi commuove la tua forza nel protenderti verso una nuova sponda. Partecipo empaticamente e con grande amicizia a questa tua “nuotata”, volendo vedere una sorta di buon auspicio collettivo nella riuscita dei tuoi progetti…
Anna.
Credo di riuscire a capire.
D’altra parte l’hai spiegato in modo così liscio e limpido che uno si commuove.
Non so. A te non sembra incredibile che questo genere di cose e di sensazioni venga considerato appartenente a una sfera intima?
Io non riesco bene a capire perché cose che fanno parte dell’esperienza delle persone in un modo così costitutivo e inevitabile debbano essere tenute tra parentesi per poter vivere tra la gente, quando poi – in realtà – sarebbero le uniche cose che ci consentono di avere relazioni con gli altri, e anche di ridere e di divertirci.
Perchè sai cosa mi sembra? Che senza la consapevolezza di questi pezzi qui anche ridere ha meno senso, fa divertire di meno.
Io ho un gran bisogno di frivolezza, ma tutto quel che trovo è la fatuità, che poi sarebbe la porta chiusa e sbarrata sul dolore, nella convinzione che si possa sorridere sempre.
Caspita che bella risposta che hai scritto alla mia osservazione ed in generale che bella composizione di commenti è nata sul tuo post.
Vada per una pelle sottile quanto impermeabile. La questione, per continuare la metafora nella lingua delle masse e delle inerzie, è che la massa l’abbiamo ed essa è necessariamente inerziale così come gravitazionale.
Insomma, sempre con il pudore di occuparsi della vita altrui, non trascinarti certo per inerzia ma sappi che il mondo accanto sarà come questo.
Poi di cesure, rotture, ripartenze è fatta la continuità.
Grazie, Dalovi.
Credo di aver sempre saputo che non c’era un mondo più bello per il semplice fatto di essere mille chilometri più in là (tant’è che la fuga in se stessa non mi ha mai attratto quanto un progetto di cambiamento); ma adesso che in Irlanda hanno trovato i maiali alla diossina, là dove oltre all’erba e al verde c’è poco altro, tutto sommato, la cosa mi è diventata definitivamente chiara.
Scherzi a parte, penso di essere molto poco ottimista su qualunque possibilità di miglioramento di qualunque cosa abbia a che vedere con un numero di persone superiori al tre (ma starei quasi per dire all’uno, se al tre non mi muovesse il cuore).
Intendo dire che ritengo di aver acquisito una ragionevole certezza che un gran pezzo di realtà è totalmente inemendabile. Forse è un’idea metafisica, boh. O forse è un’idea che può più facilmente venire a chi vive in Italia in questi anni, espropriato di qualunque livello collettivo.
Non lo so.
Ma nella possibilità di stare meglio io, io ci credo eccome, accidenti.
Sono sicura che posso dare a me stessa delle soddisfazioni, per esempio. E posso godere delle persone che amo, per esempio. E posso passare del tempo con loro, guardarli negli occhi e sentire nella morbidezza dello sguardo passare la storia comune.
E comunque.
C’è differenza tra l’essere costretti a vedere ogni giorno, in una qualunque delle nostre città, persone orrende, ingrigite, torve, nevrotizzate da ritmi assurdi, occupate a mangiare il prossimo a morsi (ti giuro: non ne posso veramente più: sono bestie feroci e si sentono tutti così sincroni col mondo) e vedere più spesso – mica sempre: più spesso può bastare – il mare, il verde; e sentire più spesso il silenzio.
Io so che c’è differenza.
L’avevo scritto in un post appena tornata dal mare.
In viaggio mi ero fermata, in Molise (ma era poi il Molise? Forse sì, mi pare di sì), in un bar su una statale bellissima, deserta e verdissima. Dietro le spalle delle bariste, madre e figlia con galline e gatti in cortile, c’era un cartello che diceva questo: chi è entrato con la fretta è pregato di tornare più tardi.
Da solo.
E’ una risposta OT, ma vabbè.
Ormai è venuta così…
Le bariste molisane hanno ragione. Comunque pur io che vivo in una bella campagna e la lavoro in un progredito ed umano centro di ricerca mi guardo bene dal frequentare la mensa. Insomma il rischio saturazione lo offrono pure coloro che son quasi brave persone!
Vero, vero!
Se devo scegliere preferisco saturarmi di brave persone piuttosto che di stronzi.
Questione di sfumature…
😉