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si fa presto a dire vegetale
Non so se la condizione di quest’uomo di cui parla Repubblica.it sia tecnicamente assimilabile allo «stato vegetativo» che è attribuito a Eluana Englaro.
Non lo so, e onestamente neanche mi interessa.
Perché mi basta vedere il volto e il corpo di quella donna stravolta che è sua madre per capire che quel che è successo a Giorgio ha completamente ucciso lei e il resto della famiglia.
Lei può pensare di non voler abbandonare mai il figlio, ma io non posso sopportare che qualcuno ritenga che l’esempio a cui ispirarsi siano le persone come lei, che strangolano la propria vita in un eroismo che io non mi sento di chiedere a nessuno.
Ognuno fa quel che può, io credo. Lei, il padre di Eluana e chiunque altro.
Lo fanno tenendo in conto la propria storia, i propri sentimenti, le proprie aspettative, i propri bisogni, i propri desideri.
Ma chiunque pretenda dagli altri atti di eroismo è – ne sono sicura – un bastardo che merita il peggio.
ciao federica.
ho letto l’articolo su giorgio: mi si è gelato il sangue nelle vene, e (assurdamente) mi sento una m*** per il solo fatto di possedere (a questo punto, con grande fortuna) quella “normalità” che lui non conoscerà mai.
ma è giusto sentirsi così da cani?
Non lo so, ma non credo che sia giusto né opportuno.
Io penso un sacco di cose, su questo tipo di esperienze.
Una simile l’ho vissuta, la sto vivendo, so cos’ha significato per me, so che è stata probabilmente l’esperienza centrale della mia vita, quella che mi ha resa come sono.
Ognuno di noi vive la propria condizione, che non può scambiare con nessun’altra condizione di nessun altro essere umano.
Ognuno è come è.
Io credo che una persona che vive una condizione diversa dalla mia viva dentro la propria normalità, che è – appunto – diversa dalla mia ma non per questo anormale.
Al massimo singolare, peculiare.
E penso che aspettarsi dagli altri l’eroismo – se non addirittura comportamenti di «sfida», come recita uno dei titoli del pezzo sulla vicenda di Giorgio – senza riuscire a vedere sul corpo e nell’anima di quelle persone che cosa significhi quell’eroismo (del quale sia l’eroe sia gli osservatori hanno certamente più bisogno che desiderio, nel senso che quell’eroismo appartiene alla dimensione del «dover essere» più che a quella del «voler essere») sia una fra le cose più sporche, laide, immorali e meritevoli di punizione che si possano fare nella vita.
Naturalmente non sto attribuendo a te questi sentimenti; ci mancherebbe altro.
Aggiungo una cosa: le persone vicine a chi ha un handicap sono spesso tenute a esibire il loro eroismo, e cadono volentieri – per mancanza di autodifese, magari – nel tranello di doversi dimostrare attaccati al loro familiare handicappato più che alla propria vita: tant’è che, facci caso, è difficile vedere madri di handicappati magre, ben curate, truccate.
La sfiga se la devono portare incollata al volto, al corpo: altrimenti non vengono accettate, diventano colpevoli del reato di «profumibalocchismo».
E quando sono diventati loro malgrado eroine, spesso si convincono che quello sia l’unico modo per affrontare quell’esperienza.
E diventano i peggiori censori di chi, in condizioni simili alla loro, pensa di avere comunque conservato qualche diritto individuale o una possibilità di vita decente.
Io penso semplicemente che ogni singola vita sia diversa dall’altra così come lo è ogni singola scelta.
La madre di Giorgio ha fatto la sua scelta e Peppino Englaro sta lottando per difendere la scelta di sua figlia.
Il dolore di ognuno di loro non possiamo conoscerlo così come non conosciamo (ma possiamo solo supporre) i motivi profondi che li hanno spinti, ma nessuno ha il diritto di ergersi a giudice ed imporre, o semplicemente blaterare, il proprio giudizio morale.
Sono d’accordo.
È per questo che non riesco ad accettare la moralità di chi intende indicare a modello i comportamenti che per semplicità possiamo definire – anche perché così vengono percepiti – «eroici».
L’altra cosa che dicevo è che la dimensione dell’«eroismo» appartiene alla sfera del dover essere.
A me sembra verosimile – dicevo – che si arrivi a costringere se stessi all’«eroismo» allo scopo di essere accettati e di meritarsi la vita.
Ovvio, poi, che l’«eroismo« sia da rispettare, in quanto scelta individuale nella quale nessuno ha diritto di metter becco.
Ma immorale che l’«eroismo» diventi un commendevole modello di regolarità sociale.
Coltivo peraltro i miei dubbi – ma questa è completamente un’altra storia – sul fatto che Giorgio sia stato lasciato dalla vaccinazione, a sei mesi, in stato vegetativo. Nelle foto si vede un bambino che cammina, che ha un’espressione del volto.
Cosa sia successo non lo so.
Però la situazione di Eluana – ma, ripeto, è tutta un’altra storia, che nemmeno rileva – mi pare assolutamente diversa.
E mi irrita che un giornale possa pensare di raccontare la storia di Giorgio come un pendant di quella di Eluana.
Come l’esempio di un altro modo di vivere la stessa cosa.
Condivido, anche per me è completamente fuorviante paragonare le due storie.