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sciùr padrùn, mi dà l’onore di leccarle i piedi?
Non ho grandi elementi per dire che i piloti dell’Alitalia abbiano torto, oppure che – al contrario – abbiano ragione.
Tuttavia, leggendo le motivazioni con le quali Anpac, Unione Piloti, Anpav, Avia e Sdl hanno proclamato quattordici giorni di sciopero (non consecutivi, ma nei titoli sembra che il trasporto aereo sarà penalizzato per due settimane di fila), io trovo motivi a sufficienza per interrogarmi, dubitandone, sull’equità dell’accordo concluso anche dai confederali.
Particolarmente persuasivo mi sembra l’argomento secondo il quale l’intesa corre il rischio di consegnare (per i piloti già «ha consegnato») «all’insindacabile giudizio di una terza parte governativa l’avallo allo stravolgimento di contratti collettivi di lavoro già sottoscritti».
Ma anche se io non pensassi che c’è qualcosa di strano nell’ostinazione con la quale il governo fa alla Cai ogni sorta di concessione; che nella minaccia di procedere alle assunzioni individuali anziché a termini di contratti collettivi sia contenuta un’inaccettabile forzatura violenta al senso stesso delle relazioni sindacali in un Paese democratico e non ostaggio dei potentati economici; anche se io non pensassi che la minaccia di voler assumere i piloti Ryanair (che mai hanno però imparato a pilotare aerei del tipo di quelli utilizzati dall’Alitalia, e i vertici della compagnia dei patrioti nemmeno lo sapevano, il che non è male per imprenditori del settore); anche se non pensassi che l’operazione Alitalia nasconde al Paese molto di più di quel che sembra offrire alla sua vista.
Beh.
Anche se non pensassi tutto questo, e credessi invece che il governo ha ragione da vendere, e la Cai è un’accolita di eroi generosi, cionondimeno un’affermazione come quella in cui il ministro Matteoli dice che «non possiamo consentire in alcun modo che qualcuno possa avere ed esercitare una sorta di diritto di veto contro un’impresa che vuole investire salvando più di 12.500 posti di lavoro» mi farebbe ugualmente rabbrividire.
Quell’affermazione contiene tutto il disprezzo per le ragioni della dialettica democratica che la stessa Gelmini ha giorni fa efficacemente sintetizzato dicendo che lei non intende tornare a politiche di concertazione; contiene tutta l’arroganza padronal-aziendalista da fabbrichetta settentrionale e da padroncino delle ferriere; tutta la rozzezza culturale e istituzionale di chi è abituato a pensare che le sue ragioni siano sempre le uniche che contano perché – per dio – sono di buon senso, «cosa ci vuole a capirlo?».
E il peggio è che la gente gli va dietro, con argomenti del tipo «la ricreazione è finita», oppure «è finita la pacchia».
Già.
Tutti sono nella pacchia tranne chi di volta in volta dice «è finita la pacchia».
Che società di merda, piena di rabbiosi figuri che si sentono sempre spremuti come limoni anche quando c’hanno casa alle Seychelles, chalet in montagna, suv, azioni partecipazioni obbligazioni e affini, pellicce, gioielli e schiavi domestici d’ogni sorta.
Eppure, quei rabbiosi figuri con la casa alle Seychelles mi sconvolgono meno degli altri, quelli altrettanto rabbiosi che nulla hanno, ma se la prendono con tutti quei “privilegiati” che non hanno nulla come loro.
Perché almeno i primi vogliono fissare la distanza, per così dire, una volta per tutte; sono “solo” i mandanti dei secondi che, invece, se la prendono coi Tommasoli che incontrano e sono pronti a tutto per avere il posto da leccapiedi di prima fila dei primi.
A tutti, però, dedico questa canzone.
Sì, forse hai ragione.
Ma che gente che ha ben più di tutto ciò che serve a fare una vita serena sia quella che poi pretende di vendicarsi addosso ai privilegiati piloti, o ai privilegiati statali…
Una (non)risposta ad ambedue in un bellissimo film che ho visto ieri sera: “It’s a free world” (In questo mondo libero) di Ken Loach.
Ciao, cometa
Non l’ho ancora visto, anche se ne ho letto.
Credo che prenderò il dvd: alla Fnac è a 9,90.
E Loach è Loach.