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la mia idea di giornalismo
Ho visto il cosiddetto fuorionda dell’intervista di Report all’assessore regionale laziale Di Carlo.
Non so se Di Carlo dica il vero quando riferisce di non aver saputo che mentre pronunciava le frasi per le quali ora si dimette la telecamera e il microfono erano accesi.
Però, in via generale e senza nessuna relazione al caso specifico, mi domando perché mai un giornalista dovrebbe rinunciare a fare il suo lavoro, tendendo tranelli all’interlocutore.
Mi si potrebbe dire che quello è magari l’unico modo per strappare qualche verità a un intervistato reticente.
Beh.
A parte il fatto che noi giornalisti siamo tenuti ad astenerci dai tranelli perché la deontologia ci obbliga ad agire in modo leale (ma voglio ripetere che sto argomentando in astratto, perché non so se le cose sono andate come dice Di Carlo), io mi domando un’altra cosa: ma veramente c’è qualcuno che crede che facendo in modo diretto a Di Carlo la domanda «scusi, assessore, ma lei è amico del gestore della tal discarica?» lui avrebbe risposto con una bugia?
E se anche lui avesse in quel caso risposto con una bugia, c’è forse qualcuno che vorrebbe farmi credere che un bravo giornalista non sarebbe riuscito a metterlo con le spalle al muro, magari mettendo in evidenza incertezze e contraddizioni della risposta?
Per la terza volta: non so se Report abbia effettivamente fatto credere a Di Carlo che microfono e telecamere fossero spente.
Ma se è così, io mi sento di dire che a me questo modo di fare giornalismo non piace.
Somiglia più a Striscia la notizia, alle iene, che a un serio modo di affrontare i temi e le persone assumendosi la piena responsabilità dei propri comportamenti.
Mi ricordo che una volta, sul Barbiere della sera (un sito sul giornalismo, da poco rinato), infuriò una polemica su quanto idiota fosse la presenza dei giornalisti nella casa di chi aveva perso un parente in un incidente.
Un mucchio di colleghi moralisti disse che certe cose non bisognava farle, che non ci si poteva presentare a casa della gente in quel modo, che bisognava ribellarsi quando i capi ci mandavano a fare quei servizi…
A me sembra, invece, che la bravura di un giornalista sia proprio quella di trovare le domande giuste da fare in ciascuna differente circostanza.
Un giornalista non deve autocensurarsi né accettare le censure, ma casomai trovare il modo giusto per rendere accettabilmente «giornalistica» anche una conversazione che si scontra con il dolore di una persona che ha appena perso un parente.
A me sembra che questa sia la differenza fra un giornalista bravo e uno non bravo.
E a me sembra che se qualcuno ci manda affan**** perché siamo stati invadenti, beh, noi possiamo anche permetterci di sopportare quell’insulto, perché in fondo siamo pagati anche per sostenere quegli insulti, visto che è del tutto normale che a qualcuno possa non piacere la nostra presenza.
Il problema è fare le domande giuste, quelle in grado di ottenere le risposte giornalisticamente più significative, e magari senza neanche essere mandati affan****.
La differenza fra un giornalista bravo e un giornalista non bravo sta qui.
Non è necessario tendere tranelli.
Ps: a proposito di giornalismo, consiglio la lettura di questo pezzetto.
Mi viene in mente un nome: “David Letterman” ma quello è un altro mondo; un mondo dove fanno la fila per andare da lui.
non ho seguito la vicenda, ma – correggetemi se sbaglio – report è l’unica trasmissione giornalistica che, nell’opinione pubblica, si distingue per serietà e per il suo modo di esaminare i problemi senza i sensazionalismi alla “porta a porta”. mi pare strano che usino tali comportamenti…
A report sono molto bravi, e sono rimasti gli unici a tentare di fare i giornalisti.
Con tutto questo, però, a me non piace il profilo da «vendicatore mascherato», da «difensore della povera gente».
È una cosa che non c’entra con la professione, ma con l’ego delle persone, e a volte può indurre in qualche errore.
Come per esempio quando affrontano la complessità delle cose con la stessa smania semplificatoria di un Brunetta.
Quando dicono «ah, che schifo gli sprechi», e si fermano su un piano d’analisi ideologico più che professionale.
Ma questa è un’opinione che so essere completamente minoritaria.
Mi raccontano che la Gabanelli vada spesso dicendo che bisogna diventare imprenditori di se stessi.
Quando lo dicevano a me nel periodo del mio precariato m’incazzavo parecchio.
Argomento complesso e delicato. Il tuo interessante post mescola questioni che andrebbero affrontate separatamente…
mi limito a una domanda, che come diceva qualcuno, nasce spontanea.
Ma tu, prima o dopo (ma pure durante) un’intervista, quando parli con l’intervistato spegni occhi, orecchie e cervello? 😉
No.
Per quel poco che riesco a fare, resta tutto sull'”on”.
Ma un giornalista televisivo non dovrebbe fingere di spegnere la telecamera e i microfoni per indurre una fonte a sentirsi più “sciolta”.
E’ altrettanto evidente che la fonte dovrebbe sempre tenere presente che sta parlando con un giornalista e comportarsi di conseguenza.
Ma questa è un’altra storia.
Attiene alla colpevole compiacenza con la quale molti giornalisti ritengono di potere fare gli amiconi coi potenti raccogliendo tutte le loro confidenze assicurando loro la riservatezza allo scopo – a volte – di far turpe mercimonio, e non un uso professionale, delle informazioni che in questo modo ricevono.
Non sto facendo l’elogio della cosiddetta ufficialità, dunque, e per molte ragioni; non ultimo il fatto che detesto – giudicandolo contraria a qualunque logica informativa – l’orizzonte professionale del comunicato stampa, del portavoce, dell’ufficio stampa.
Dico, però, che se uno è giornalista dovrebbe rispettare le regole deontologiche. Stop.
Tanto più che sono assolutamente certa che si riesce benissimo a far rispondere le persone.
Purché, è evidente, si sappiano fare le domande giuste.
Alla peggio, risulterà evidente la reticenza della fonte, che pure ha un suo significato, magari.
Ma io resto dell’opinione che se uno si è documentato bene le domande riesce sempre a farle in modo da dare alla sua fonte il minor numero possibile di scappatoie, margini sempre più stretti per mentire.
Chi preferisce invece tendere imboscate, magari riesce lo stesso a ottenere le informazioni che vuole, e pure con più facilità, e pure meritandosi la patente di mastino, di figo, di difensore della gggente; però, secondo me, farebbe bene a definire se stesso non giornalista, ma in un altro modo. Non dispregiativo. Semplicemente in un altro modo.
Che so: può farsi chiamare antonioricci, per dire. O staffelli.
Credo che sia diverso.
Io penso che il mio non sia un lavoro da Paperinik che va in cerca del consenso dei paperopolesi ripulendo la città dai mentitori.
Sul fatto che il post mescolasse argomenti che potrebbero essere affrontati separatamente sono d’accordo con te.
E ripeto: non sto dicendo che a Report abbiano teso un’imboscata a Di Carlo.
Non lo so, non ne ho idea.
Voglio anche specificare che chiunque parli in qualità di fonte con un giornalista dovrebbe sapere che sta parlando con un giornalista e dunque comportarsi di conseguenza.
Torno al tuo commento che inizia con:”A report sono molto bravi, e sono rimasti gli unici a tentare di fare i giornalisti”; ed aggiungo: per fortuna in televisione ci sono almeno loro.
Sul semplicismo sono d’accordo con te, purtroppo è qualcosa di troppo frequente e magari necessario per stare nei tempi della trasmissione, ma una trasmissione come Report dovrebbe fare dell’approfondimento la sua ragione di vita.
Anche il “diventare imprenditori di se stessi” è qualcosa che si cita, a sproposito troppo di frequente. Io lo intendo non esattamente in senso monetario, tanto per fare un esempio, questo blog è un esempio di quello che intendo per auto-imprenditoria. Che poi in termini economici sia passivo, bhe è un altro discorso.
Cavoli: sono una collega di Emma!
Scherzi a parte, il giornalista non può mai – credo – essere imprenditore di se stesso, a meno che non intenda il suo lavoro (e va da sé che lo considero molto più che legittimo, visto che è, tra l’altro, il modo in cui lo sto facendo io, per numerose e serie ragioni, sebbene io sia lavoratrice dipendente) come un modo per guadagnarsi da vivere e stop, da fare nel migliore dei modi a partire dalle condizioni date e purtroppo non modificabili.
Il giornalista è uno degli elementi che concorre alla realizzazione di un’opera collettiva che si chiama giornale (o telegiornale, o rdaiogiornale, o sito…).
Il «prodotto finale» è, appunto, un’opera collettiva, che deve andare ragionata insieme, pensata, esaminata, costruita con il concorso delle intelligenze e delle capacità di tutti (chi più chi meno, d’accordo).
Ci vuole una persona che coordina gli sforzi di tutti, che decide qual è la direzione in cui gli sforzi vanno mossi.
È necessario che le persone si sentano parte del progetto, che ne condividano il senso complessivo, se non i singoli suoi pezzi.
E non sto parlando di utopie. Condividere un progetto e sentirsene parte non significa avere rapporti splendidi con ciascun collega. Significa solo aver molto chiaro il senso del proprio lavoro, e il modo in cui il proprio lavoro si deve integrare con quello degli altri.
In questo quadro non vedo spazio per l’autoimprenditorialità, che era diventata la stucchevole parola d’ordine di un sindacato pigro (parlo del sindacato giornalisti) e di colleghi tutt’altro che pigri (forse pure troppo svegli e mercantili) all’epoca della precedente crisi dell’editoria, quella che comportò fra il 94-95, all’indomani del terremoto del potere socialista e democristiano, la chiusura di moltissimi giornali.
Quell’idea – diventa imprenditore di te stesso – consentiva al sindacato di dimenticare le sue responsabilità nella gestione della crisi (si scelse, poi, di concludere con la controparte accordi che permettevano di sottopagare i disoccupati che venivano reintegrati anche a tempo in redazioni giornalistiche, riconoscendo alle aziende anche il diritto a pagare meno contributi previdenziali), e ai singoli colleghi di credere che un problema collettivo della categoria era in realtà affrontabile in termini personali.
I più svegli si sono inventati, per esempio, uffici stampa e comunicazione che hanno ulteriormente corrotto il senso della professione giornalistica, riducendo l’informazione a ciò che adesso si chiama «comunicazione» (come se le due cose fossero minimamente equivalenti!), e assumendo la possibilità che un professionista dell’informazione possa diventare amplificatore dei bisogni propagandistici di qualcuno: aziende, politici, o qualunque altro soggetto di diritto pubblico o privato.
Tra l’altro chiedo scusa, però io su questi temi accendo il motore e poi vado avanti col pilota automatico.
Ci ho pensato così a lungo, con tale partecipazione, con così intensa sofferenza, con botte di rabbia così grandi, con speranze così alte, che adesso veramente basta schiacciare il bottone e io parto.
E scrivo.
E scrivo.
E scrivo.
…
meno male che scrivi!
ci sono già troppi bavagli.
grazie, sentitamente.
a.
No, grazie a te e agli altri che leggete e sopportate!
😉
No, davvero, meno male che scrivi pechè altrimenti ci tocca sopportare davvero solo il peggio.
P.S. visto che vergogna la faccenda dell’ambrogino?
Dell’Ambrogino mi colpisce il fatto che perfino gente come Mieli e Battista dica che si è esagerato.
E allora, siccome purtroppo trovarmi d’accordo con persone con cui non sono mai d’accordo è un ottimo sprone per farmi riflettere più a fondo, io ne ho concluso che in questa storia quel che mi colpisce non è tanto la volgarità, la tracotanza, l’arroganza o il semplicismo, ma il fatto che le reazioni sembrino quasi il frutto di un automatismo al politically correct e non di autentica indignazione.
Quando qualcuno sente dire da un consigliere di Forza Italia – mi pare – cose come «beh, Biagi ha già avuto la tale onorificenza, e poi quell’altra, e poi quell’altra ancora; cos’altro vogliamo dargli?», perché il sindaco, o gli amici consiglieri di tutte e due le parti non se lo mandano sonoramente affanc***?
Perché non gli dicono «ehi, giovanotto: ma chi credi di essere, tu? La misura del mondo? Il distributore delle prebende secondo superiore giustizia redistributiva?».
È proprio l’idea di base che mi fa orrore.
Questi che dicono «no, questo ha già avuto, e invece noi per spirito egualitario dobbiamo premiare quest’altro».
È lo sfuggire ai problemi di contenuto che mi indigna.
O Biagi lo si ritiene meritevole di ricevere il premio (e non è affatto obbligatorio: lo si può benissimo considerare, faccio per dire, un giornalista mediocre; basta avere il coraggio di dirlo e di spiegare perché), oppure no.
Non sta in piedi neanche su Marte un’argomentazione paternalistica del tipo «beh, accontentiamo chi ha avuto di meno».
Io non ho sentito il vaffanculo che mi sarei aspettata.
e da sinistra – sinistra … – ho solo sentito dire che Biagi era strafigo, spaziale, magnifico, esaltante…
Che può essere assolutamente vero: ma cosa diavolo c’entra con un «no» argomentato in quel modo?
Capisco se avessero detto «Biagi non ci piace perché era antiberlusconiano».
Allora avrebbe avuto senso che il Pd dicesse «No, invece era un fenomeno di bravura e voi non capite niente».
Invece questi hanno detto “no, non gli diamo niente perché ha avuto fin troppo».
Il Pd doveva dire, casomai: «E questo che cosa diavolo c’entra?
Perché come al solito vi nascondete dietro una disputa nominalistica, e stavolta perfino ammantata da falsi motivi di giustizia?».
O no?
Logica stringente.
Eppoi guardacaso sono le stesse giustificazioni che mettono in campo con Saviano. Fede addirittura arriva a dire che la scorta ce l’ha pure lui e non ha mai fatto tante storie; anche se ho l’impressione che a lui per proteggerlo basta che gli mettano i tappi nelle orecchie: per non fargli sentire le pernacchie.
😉
…ma non preuccuparti, il “sano giornalismo” continuerà ad avere il sopravvento in santa pace. Mi si dice che una di queste mattine Canale 5 abbia trasmesso una intervista a Vespa su di un suo libro (…par di capire una nuovo in cui parla anche di classi ponte). Insomma i casi come questo saranno sempre meno… ohinoi!
Dalovi, grazie.
Tu sai perché.
🙂