Tags
Related Posts
Share This
verona caput fasci, note a margine
Ieri sera, prima a Porta Leoni – là dove Nicola Tommasoli è stato ucciso da cinque persone che per il sindaco di Verona sono imbecilli e per il filosofo Cacciari non sono di destra – e poi al circolo Arci Kroen di Villafranca, c’ero anch’io.
Per strada prima, e al circolo poi, Elena Vanni e Elio Germano hanno recitato «Verona caput fasci», il loro spettacolo teatrale che riprende le frasi con le quali nel 1995 alcuni consiglieri comunali della mia città impegnarono il consiglio ad astenersi dall’adottare qualunque decisione «tendente a parificare i diritti delle coppie omosessuali a quelli delle famiglie “naturali” costituite da un uomo e una donna».
la classe di un uomo
In quelle settimane in cui il consigliere della Lega Romano Bertozzo diceva nell’aula del consiglio comunale che i gay bisogna farli capponi, o il consigliere Bottoli di An diceva «non è forse meglio che la donna ritorni a quella che è la sua vocazione naturale, che è quella di tutti gli animali? (…) Perché tu hai aperto le gambe in quel momento, ma in quel momento in cui lo fai hai fatto quella scelta volutamente», il giornale dove io avevo cominciato a fare la giornalista stava chiudendo.
chiusura e solitudine
Si chiamava «la Cronaca di Verona e della provincia» e non era male.
Era molto difficile digerire quella chiusura, per me; tanto più avendo un’idea delle cause per le quali avveniva.
Le parole di Bertozzo, di Bottoli (attualmente difensore civico regionale), la violenza delle prese di posizione di quelle settimane mi spaventarono molto.
Mi sentivo molto sola.
non avevo capito
Uno dei primi servizi che mi furono commissionati alla Cronaca quando cominciai a scrivere fu un’inchiesta a puntate sulla Lega.
Girai molto per la provincia, per raccogliere materiale e per raccogliere pareri, per incontrare le persone e per farmi spiegare le cose.
E se c’è una cosa che ancora mi fa male è il non aver capito – io come tanti – che qualunque ironia era assolutamente fuori luogo, perché era allora che si stava preparando ciò che oggi sta accadendo.
l’errore della naiveté
Eppure, forse perché ero ragazza, forse perché avevo l’aria di sufficienza che hanno tutti i principianti (e molti conservano, sfortunatamente immutata, anche dopo), forse perché dovevo autodifendermi dalla paura che quel che vedevo fosse vero e produttivo di conseguenze, io credevo che alcune delle cose di fronte alle quali mi trovavo fossero tutto sommato semplici espressioni di naiveté.
forzature incomprese
E invece, erano forzature progressive della struttura di garanzie formali e sostanziali che reggevano il patto sociale.
Se i militanti della Lega mi parlavano delle «ronde padane», insomma, non stavano riferendosi a una specie di gioco di ruolo nel quale si calavano nel tempo libero senza far male a nessuno, come me quando da piccola giocavo con le bambole: stavano introducendo nel discorso pubblico – magari senza saperlo, magari sapendolo – il sostantivo «ronda» e l’aggettivo «padano» e i loro significati.
la legittimazione della flatulenza pubblica
Stavano dando materia ideologica a parole fino ad allora caricate di senso negativo – è il caso di «ronda» – o precedentemente inesistenti (è il caso di «padano», fino ad allora esclusivamente riferito all’ambito della geografia fisica), ed edificandoci intorno una vaga e potenzialmente enorme regione di comunanza ideologica nella quale nessuno avrebbe mai chiesto loro il vero senso di quelle – e di mille altre parole d’ordine, da «Serenissima» in giù – perché tutto quel che serviva c’era, ovvero la legittimazione della scoreggia come elemento costitutivo del discorso politico. E quanto più la flatulenza faceva rumore e lasciava puzza, tanto meno resistenza incontrava. Così, a poco a poco, batterie enormi di flatulenze hanno appestato l’aria. E sempre maggiore orgoglio ne traevano coloro che avevano ammorbato l’aria.
la costruzione del senso comune
Cominciavano a creare un mondo dal quale stavano escludendo tutto il resto, tutto il dissimile, che si allontanava perché non sopportava quella puzza.
Stavano dando forma a quel senso comune che adesso consente a chiunque di dire frasi come «gli statali sono fannulloni» senza preoccuparsi di fare alcun lavoro di pur minima contestualizzazione, o «non ce l’ho coi gay» (frase pronunciata – mio dio – da un ministro della Repubblica), o «gli insegnanti del sud devono essere riqualificati perché non sono all’altezza di quelli del nord», o «i clandestini devono essere cacciati via a calci nel sedere», o «il Parlamento è troppo lento, noi dobbiamo decidere, perciò ricorreremo alla decretazione d’urgenza tutte le volte che ci sembrerà opportuno», o «negro di merda», o milla altre espressioni violente e volgari, incapaci di accogliere la complessità.
le mie colpe
Io tutto questo non l’avevo capito. Non bene, perlomeno.
E non avevo ancora ben chiaro che questa cosa succedeva anche grazie a me. In parte perché facevo la giornalista; in parte perché avevo partecipato all’avventura della Rete – il movimento fondato da Orlando, Dalla Chiesa, Fava, Novelli… – che era stato il primo segnale della nascita di ciò che ora chiamiamo «antipolitica».
Non rinnego quell’esperienza. Semplicemente credo che abbia preparato il terreno, anche non volendolo, alla semplificazione arbitraria del discorso politico della quale s’è giovata esclusivamente la destra.
«tecnicismi» e destra
In altre parole, attribuire centralità esclusiva alla questione morale ha significato, secondo me, avallare l’idea che i fenomeni complessi abbiano spiegazioni semplici e «naturalistiche» alle quali basta opporre argini di tipo «tecnico» come leggi elettorali o regimi di incompatibilità.
Mi vengono in mente le battaglie sulla preferenza unica, per esempio, per evitare le cordate mafiose del voto. O il maggioritario, presentato come sistema per ricondurre i comportamenti politici alle responsabilità individuali.
le battaglie, sì: ma con chi?
A Porta Leoni ho incontrato dopo tredici anni un ragazzo – è un uomo, ormai – che collaborava con la Cronaca. La gente era parecchia, ma lui era lo stesso un po’ deluso dal fatto che in fondo fossero sempre gli stessi. «Sai qual è la cosa peggiore?», gli ho detto. «È che in mezzo a tutte queste persone che sembra siano così vicine, così unite, così compatte, faticheresti a trovarne quattro con le quali riuscire a fare una concreta battaglia comune, tanto l’orizzonte è disperso».
eppure, a dispetto di tutto…
Eppure, a dispetto di questa considerazione; a dispetto delle frasi con le quali – leggo oggi – il sindaco della mia città ha replicato al collega di Castel Volturno («Io non farei mai il sindaco in un posto così, dove ci può essere solo un commissario straordinario nominato dal governo che, con l’aiuto dell’esercito, riporti la normalità», in un sol colpo delegittimando un sindaco, una città, un’istituzione, e tutti i cittadini, e dando a se stesso il valore di misura del mondo); a dispetto della sicumera con la quale i giornali riportano senza virgolette, e dunque validandone la veridicità, che il cosiddetto federalismo fiscale farà risparmiare cifre iperboliche; a dispetto delle cose che riesce a dire Pino Agnetti, sostenendo che sono gli italiani, adesso, quelli che portano cucita la stella nazista addosso («Gad Lerner (…) ha invocato la nascita in Italia di un partito di soli immigrati quale unico strumento rimasto a questi ultimi per difendersi dalla dilagante violenza quotidiana cui sarebbero esposti per mano della popolazione “indigena”. Cioè di tutti noi che in questo Paese ci siamo nati. Prerogativa che, oramai, sembra essere diventata l’equivalente della lettera scarlatta che l’eroina del romanzo di Hawthorne è costretta a portare impressa sul petto (ma il pensiero vola subito alla stella cucita sugli abiti con cui gli ebrei erano obbligati ad andare in giro nell’Europa nazista)»); a dispetto del fatto che i finti liberisti dicono sì – adesso – agli aiuti di Stato per la crisi dei mutui; a dispetto del fatto che il ministero indaga sulla bocciatura del figlio di Bossi…
… la testa resta alta
A dispetto del fatto che di quel che vedo niente mi piace, e che dunque la tentazione sarebbe quella di mimetizzarsi con lo sfondo, io so che non ho alternativa: tenere alta la testa, sempre. E non rinunciare mai a dire quel che penso; e ad argomentarlo, davanti a chiunque.
la fiducia di nando
Sul suo blog, Nando dalla Chiesa – uomo che stimo sommamente per la sua capacità di quieta e calda indignazione – parla a volte di cose belle, di motivi di ottimismo, di punti da cui ritiene possibile ripartire.
Io non riesco a condividere questa fiducia.
grazie a elio, a elena e a graziella
Però so che la gentilezza e la grazia con la quale ieri sera Elio Germano e Elena Vanni si sono lasciati avvicinare dicono qualcosa; che la forza con la quale ha parlato Graziella Bertozzo dice qualcosa; che l’ingenua curiosità con cui una signora d’una certa età ieri sera mi ha chiesto se quel «meeting» l’avrebbero fatto vedere in televisione dice qualcosa.
Queste cose dicono che c’è una certezza che non mi verrà mai meno.
La certezza della parte da cui stare.
A volte ci si deve far bastare quel che c’è.
Va bene. Lo ammetto. E’ la prima volta, da più di due anni, che rimpiango di non abitare più a Verona. Ieri sera mi piacerebbe esserci stato, sia per lo spettacolo, sia per salutare la mia vecchia amica Graziella Bertozzo e tutti gli altri.
Per tutto il resto – a parte forse che sei un po’ troppo ingenerosa con te stessa nel colpevolizzarti per la partecipazione alla Rete come primo momento dell’antipolitica – pienamente d’accordo.
Come sempre, un abbraccio.
P.S. Vedo e sento la conferma della sospensione delle attività del Centro Mazziano. Nel bene e nel male ci ho passato più di venticinque anni della mia vita. La tristezza aumenta. Cerco di guardare altrove e – anche se il mio figlio grande non è d’accordo – continuo a pensare che, per fortuna, c’è mondo fuor dalle mura di Verona.
Grazie, Carlo; la colpa c’è. Magari non è grave, e certamente non è mica tutta mia (ci mancherebbe altro): però c’è.
Mi dispiace per il centro Mazziano.
In effetti non c’è spazio per questi pezzi di mondo.
E se anche c’è mondo al di fuori delle mura di Verona, è un mondo rispetto al quale a me sembra di procedere comunque in direzione ostinata e contraria.
Ma è possibile che ci stiamo male così in tanti?, mi domando.
E’ possibile perchè, come scrivi giustamente: «È che in mezzo a tutte queste persone che sembra siano così vicine, così unite, così compatte, faticheresti a trovarne quattro con le quali riuscire a fare una concreta battaglia comune, tanto l’orizzonte è disperso».
Ho passato una settimana a casa con la bronchite, utilizzandola – oltre che per fare il pieno di antibiotici – a leggere, scrivere e telefonare.
E leggo “Il Manifesto” e “Carta” e “Adista” e “Rocca” e decine di newsletter e sento gente e vedo un sacco di belle iniziative per salvare qualche roccia delle Dolomiti o un formaggio di fossa.
Manca – una cosuccia da nulla – il luogo dell’anima (prima ancora che pratico, organizzativo, concreto con sedi sedie tavoli telefoni etc.) che le raccolga e le indirizzi verso un orizzonte.
Certo non sarà Veltroni o chi per lui a darcelo. Neanche Obama, temo.
Però: per Giovanni e Lorenzo (e tutti gli altri che ci stanno crescendo attorno), che caspita di mondo gli stiamo lasciando?
Bisognerebbe almeno saper partire dal male in cui ciascuno sta, per metterlo insieme. Come qui, come altrove in Rete e oltre. C’è il rischio dell’eccesso di autocoscienza. Ma almeno la parola continuiamo a prendercela.
Sì, il rischio c’è.
Io non ho via d’uscita.
Non posso tacere, non ci riesco.
Ma parlare mi fa a volte più male che tacere, perché vorrei riuscire a fare spallucce.
L’unica strada che posso percorrere è continuare a fare progetti, il più possibile – purtroppo – individuali. Coltivare l’altrove in attesa di potermici spostare.
Ma è molto faticoso.