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ordine, deontologia, stranieri e giornalismo
Kalle, commentando il mio post sulla macedonia senza zucchero, scrive questo:
«Nell’ottimo (e triste) commento di Maltese, c’è un inciso su una questione che mi sta molto a cuore: “L’Italia è l’unica nazione civile in cui nei titoli di giornali si usa ancora specificare la provenienza soltanto per i delinquenti stranieri: rapinatore slavo, spacciatore marocchino, violentatore rumeno”. È verissimo quello che dice Maltese. In altri paesi (ad esempio il Regno Unito), titoli così sarebbero inammissibili.
Ti chiedo, l’ordine dei giornalisti non puo’ fare niente, per fermare un simile malcostume?».
La risposta è sì.
Ma con una serie di «ma» le cui ragioni elenco qui sotto, prendendola – me ne scuso, ma è necessario – alla larga.
In termini generali, la gerarchia delle fonti normative che regolano l’esercizio della professione giornalistica è questa.
In primo luogo, com’è ovvio, vale l’articolo 21 della Costituzione, che tuttavia non fa alcun riferimento al diritto di cronaca in se stesso, preferendo invece riferirsi al diritto di espressione riconosciuto a ciascun cittadino, e – quanto alla stampa – dice solo che «non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Che le due affermazioni, prese insieme, rendano possibile la presunzione che il nostro ordinamento tutela la libertà di stampa è certamente vero. Meno chiara è invece la tutela costituzionale riconosciuta al diritto di cronaca. Ma questa è un’altra storia, anche se ha anch’essa conseguenze nell’esrcizio della professione giornalistica.
Poi, ovviamente, ci sono le leggi generali dello Stato, compresi codice civile e codice penale, ovviamente: il che impone al giornalista – tra le altre cose – l’obbligo di dire la verità e di farlo rispettando il dovere di continenza formale. Eentrambe le circostanze integrano la scriminante del diritto di cronaca.
Per farla breve, se io scrivo che Tizio è uno stronzo, magari può essere che io abbia detto una verità sacrosanta, ma non sono certamente continente, e dunque – ragionevolmente – vengo condannata per diffamazione nei confronti di Tizio.
Poi c’è la legge che nel 1963 istituì l’ordine dei giornalisti. All’articolo 2 si legge:
«È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede.
Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori.
Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori».
La legge fissa anche le attribuzioni del Consiglio dell’ordine; tra le attribuzioni, naturalmente, c’è anche la facoltà di procedimento disciplinare, che si può concludere anche con la radiazione dall’albo (articolo 51).
L’ordine è organo di diritto pubblico. All’ordine, perciò, si possono rivolgere tutti i cittadini che ritengano violati da qualunque iscritto i principi della professione. E l’ordine è tenuto a dare una risposta.
I principi a cui attenersi sono identificati anche in un certo numero di carte deontologiche. L’elenco completo si trova qui.
La più recente di queste carte deontologiche è la cosiddetta «carta di Roma», che fa obbligo ai giornalisti di
«evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti e Federazione nazionale della stampa italiana richiamano l’attenzione di tutti i colleghi, e dei responsabili di redazione in particolare, sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e servizio; e di riflesso alla credibilità della intera categoria dei giornalisti».
Fin qui la cornice.
Ora. È ovvio che l’ordine può – e deve – fare qualcosa contro l’esplicitazione della nazionalità di un uomo o di una donna che organi di polizia sospettino di aver commesso reati di qualche genere.
Ma ci sono alcune considerazioni da fare.
In primo luogo, se il clima è quello che è, è evidente che sempre meno cittadini sono indotti a rivolgersi all’ordine per lamentare il fatto che queste prescrizioni deontologiche non vengono rispettate, e che sempre meno giornalisti – per stupidità o calcolo carrieristico – sono indotti a rispettare le carte.
In secondo luogo, se il clima è quello che è, è altrettanto evidente che i direttori responsabili delle testate giornalistiche – primo gradino di «sorveglianza» deontologica redazionale – sono i primi a voler forzare sulle notizie, nella convinzione (semplicemente mercantile o anche dolosamente ideologica) che se questa è l’aria che tira, beh, almeno vendiamo più copie.
In terzo luogo, la mia opinione personale.
È o non è elemento della notizia la provenienza geografica di un cittadino che «fa parte» di una notizia?
La mia risposta è che, novanta volte su cento, sì, lo è.
Perché io sono pagata per dare tutte le notizie, e non per selezionarle in base a un criterio di convenienza politica, di destra o di sinistra.
Questo significa che se un italiano investe e uccide un bambino sulle strisce pedonali io sono legittimata a scrivere che un italiano investe e uccide un bambino sulle strisce pedonali.
Il problema, per me, è leggermente laterale rispetto a questo.
Il problema è che i giornalisti tendono a considerare vero ciò che dicono vigili, agenti, carabinieri, e chiunque indossi una divisa.
Se un uomo viene arrestato perché a casa sua è stata trovata della droga, la polizia – o i carabinieri, o chiunque faccia la conferenza stampa per dar pubblicità alla notizia – dirà che Tizio Caio, rumeno (o albanese, o filippino o americano) è uno spacciatore, completamente incurante della possibilità ipotetica – remota, ma non per questo da scartare immediatamente e per partito preso – che sia stato qualcun altro a mettere apposta la droga in casa del tipo.
Il giornalista scriverà dunque «Arrestato spacciatore albanese» (o rumeno o eccetera).
Insomma. Chiunque si dimentica che ci sarà un processo, e che sarà quel processo – nei limiti, ovvio, in cui un processo può farlo – a stabilire la verità (magari sbagliando, anche) su quell’arresto.
Questo per dire che se noi scrivessimo che un albanese (un rumeno, un filippino, un italiano, o un giapponese) è sospettato di aver bevuto troppo alcool prima di mettersi alla guida, beh, a me sembra che diremmo la verità, includendo la nazionalità, che per me è elemento della notizia (non perché io ne possa ricavare indizi rispetto a un’ipotetica e inesistente propensione delinquenziale rubricata per nazionalità), e dicendo al lettore «attento: questo è ciò che dice la polizia (i carabinieri, la finanza…), ma non è affatto detto che sia la verità».
So che sono stata lunga, mi dispiace.
Federica, molte grazie per la risposta.
Sono d’accordo con te sul fatto che la nazionalita’ di una persona sia ‘parte’ di una notizia.
Il mio problema riguarda il peso da dare a questa parte.
Se io titolo “Rumeno investe bambino”, be’, do alla nazionalita’ la massima importanza.
Mi sembrerebbe impensabile(*), per dire, che il Corriere titolasse “Napoletano investe bambino”, o “Spacciatori comaschi arrestati”.
Questo non significa non riportare nel testo dell’articolo nazionalita’, origini, residenza etc..
Mi riferisco solo al problema dei titoli, perche’ immagino poi che un redattore abbia margini di scelta su quali notizie enfatizzare e far ‘passare’ e quali lasciare ai trafiletti. Per non parlare, come giustamente fai tu, dell’uso attento dei termini e delle fonti.
(ci sono poi casi in cui la nazionalita’, o la condizione di immigrato hanno davvero la massima importanza – e la mia obiezione non vale, per quei casi)
(*) qui voglio essere ottimista. Ma e’ chiaro che ad es. nella sezione di cronaca de La Padania un titolo del primo tipo non desterebbe gran scalpore.