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cosa c’è dentro una giacca
E pensare che le giacche mi piacevano così tanto, una volta.
C’è stato tutto un periodo della mia vita – ero ragazzina – in cui mi immaginavo bellissima con un maglioncino a collo alto di cachemire leggero, una collana di perle e – sopra – una giacca di foggia maschile.
Probabilmente era l’immaginario di una ragazzina che non vedeva l’ora di crescere e – non riuscendo, per la temporanea impraticabilità del campo, a venire a patti con la questione della sua femminilità – sostituiva un’impossibile immagine realistica di sé adulta con un ritratto oleografico senza genere. Una figurina composta che avrebbe indossato colori tenui e ben assortiti, tessuti morbidi e pregiati.
Una splendida corazza con la quale dar l’idea di non essere aggressiva, immagino.
Poi le giacche le ho avute. Parecchie. A quadretti, pied-de-poule, principe di Galles, coste di velluto, misto cachemire, gessate, di seta, da sera. Qualcuna infiancata, qualcuna più blazer.
Molte volte il maglioncino a collo alto l’ho messo davvero, sotto.
E poi, un giorno, mi sono resa conto che era tutto un imbroglio.
Che mi mettevo una divisa, ma non avevo poi tutto questo bisogno di nascondermici dietro.
All’improvviso non ho trovato più senso nel camuffarmi, nell’insaccarmi, nel rendere ininitelligibili le proporzioni del mio corpo.
Mi piacciono ancora – e quanto – le giacche di Armani (più quelle corte che quelle lunghe, se proprio devo scegliere), perché danno forma a un’idea di femminilità senza spigoli, senza nevrosi carrieristiche e senza cupidigia da virago.
Però adesso mi piacciono molto le cose poco sagomate, quelle che ti si appoggiano addosso e ti accompagnano nei movimenti, che non costruiscono un corpo che non c’è, che non strutturano durezze dove le durezze non ci sono.
Ecco perché mi fa così impressione che tutte le ministresse di Berlusconi indossino sempre e comunque la giacca. Quelle bianche virginali della Carfagna; quelle color crema e di taglio improbabile della Gelmini; quelle da sciantosetta superchic della Prestigiacomo; quelle scure e inamidate, rigidissime, della sottosegretaria Brambilla; quelle difficilissime da descrivere (molto easy going, pure un po’ troppo) della Meloni.
Queste giacche sono il corrispettivo di un’idea di donna molto berlusconiana, secondo me. Maliziosa entraineuse nelle situazioni in cui ancora gareggia con piena crudeltà con le sue pari per un posto al sole; con supertacco, labbroni, sguardo «attento-uomo-che-ti-mangio», reggiseno push-up e ogni possibile ammennicolo capace di evocare una sovrabbondanza parossistica di identità di genere e di voracità sensuale.
Poi, una volta assunta nell’olimpo, irrigidita in un’icona ridicola, inamidata in giacche con le quali tenta con estrema difficoltà di sperimentare un modello iconografico di serietà professorale.
Non sto dicendo che si tratti di una parabola comune alle ministre; ma solo sostenendo il punto che questa bi-fasica sia un’idea di donna che appartiene secondo me all’universo berlusconiano. Prima giocattoli per il piacere altrui; poi giocattoli per l’altrui potere.
Mi ricordo che una volta andavano di moda dei giacconi maschili terribili, non so più dire di che marca. Erano così rigidi che stavano in piedi da soli, e avevano un cappuccio bordato di lunghissimi peli di volpe.
Ecco.
Io mi ricordo un sacco di ragazzi che indossavano questi giacconi come se fossero la loro arma. Avevano fra i venti e i trent’anni, ed erano in quella fase della loro vita in cui non avevano ancora capito se erano ancora ragazzi o – a dispetto della situazione esterna ed oggettiva – erano già adulti. Non sapendolo, usavano quei peli di volpe e quei giacconi di ferro – erano perlopiù beige, non potete non ricordarli – per dare al mondo qualche informazione preliminare: attenti, posso farvi del male; sono virile; ho denaro quanto basta a comprare questa corazza, e dunque ho anche potere.
A me le donne che indossano le giacche dicono – chi più chi meno, perché poi a volte basta una luce di dolcezza negli occhi per neutralizzare quest’effetto – che stanno camuffandosi, stanno aggressivamente (e non remissivamente; tutt’altro!) incuneandosi con gran prosopopea nel loro posto nel mondo.
Come se stessero dicendo che hanno lottato una vita per potersi finalmente mettere la divisa della razza padrona, e adesso che ce l’hanno sono pronte a mortificare chi si mette di traverso.
La Prestigiacomo, va detto, porta le giacche molto bene, con molta nonchalance. E sono giacche evidentemente molto costose e raffinate.
Ma la Gelmini, per esempio.
A me sembra che la Gelmini possa indossare qualunque cosa senza riuscire minimamente a valorizzarla, e senza che – corrispettivamente – niente riesca ad ammorbidire la sua scorza esteticamente rurale.
Ci sono persone, perlopiù donne, che hanno il dono speciale di non riuscire minimamente a capire quali siano gli abiti che valorizzano i loro punti di forza. La Gelmini a me sembra una di questi tipi.
D’altra parte, trovarsi ministre dopo carriere politiche così brevi credo possa indurre a errori di valutazione su di sé.
Si può veramente essere indotte a credere di essere quella cosa lì, cioè donne dure piene di spigoli vivi. E poi, quando ci si rende conto che quello era il modo in cui il potere ci aveva costrette ad essere per essere accettate, neutralizzando finalmente la nostra specificità femminile, è troppo tardi per cambiare.
Si resta aspre, e disperate, credo, perché l’unica morbidezza che si sia mai sperimentata è – e nemmeno tutte l’hanno fatto – è quella della seduttività.
E così queste donne con le giacche rimangono attaccate all’armatura.
Nel frattempo, gli uomini che hanno dato loro il potere continuano le loro azioni di scouting fra le ragazze più sensualmente promettenti.
E la giostra riprende.
Senza mai passare per la politica, ma solo per una specie di valutazione dell’impatto spettacolar-politico dei personaggi.
Oggi ho ricevuto la mail di un conoscente che nei tempi che furono mi fu da fonte per alcuni servizi giornalistici: mi diceva che il sito gli piace, ma che la mia causticità rivela amarezza.
Sì. Non ha torto.
E forse sono anche una palla, ora che ci penso.
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