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la macchina da guerra dell’ideologia efficientista
C’è un articolo, sul Corriere.it di oggi, che fa riflettere.
Perlomeno: fa riflettere me – forse perché è un tema che sento – sull’importanza della scelta delle parole.
L’articolo comincia così: «La guerra ai “fannulloni”, agli statali “lavativi” e protetti da mille privilegi non la farà solo con le parole ma con i numeri».
Il guerriero in questione è il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta.
A prescindere dai contenuti – sui quali si può concordare oppure no, e in questo momento lascio da parte la questione – le parole scelte fanno proprio impressione, perché creano immediatamente il contesto di riferimento, dicono subito da che parte si sta, chiariscono già alla prima occhiata quale sia la posizione.
Le parole “fannulloni” e “lavativi” sono fra virgolette.
Con questo, io che leggo ricevo il messaggio che si tratta di termini che chi scrive adotta con qualche distanza critica, forse perché non del tutto convinto che utilizzarli in quella sede sia completamente appropriato.
Le parole e le locuzioni veramente importanti di quella frase, però, non sono fra virgolette, e questo mi dice che chi le ha usate è ragionevolmente sicuro che il loro utilizzo sia pienamente giustificato e corretto. Che si tratti, insomma, delle parole giuste collocate al posto giusto. E inequivoche.
Le parole non fra virgolette sono guerra, protetti da mille privilegi, numeri e parole.
Chi scrive, ne posso dunque dedurre, è sicuro che è giusto fare la guerra (e attenzione: con la precisione e la verità intrinseca dei numeri, mica solo con l’ambiguità e la faciloneria delle parole) a qualcuno perché è protetto da mille privilegi.
Non dieci privilegi; non cento.
Mille. Né più né meno di mille.
E’ evidente che si tratta di un uso figurato.
Però – guarda che caso – qui le virgolette non ci sono.
Ci troviamo evidentemente immersi fin da subito nel territorio della contrapposizione retorica fra “pubblico”, sentina di tutti i mali e pozzo nero di tutti gli sprechi, e “privato”, oasi di produttività e luogo mitologico di egualitarismi paradisiaci.
Cioè, attenzione all’inversione: il “privato” è egualitario – tutti devono lavorare, sennò saranno espulsi e se ne andranno a casa (il che è peraltro completamente falso, agli occhi di chiunque abbia avuto una frequentazione anche breve dell’asserita Arcadia del privato) – e il “pubblico” è anti-egualitario, protettivo del privilegio.
Chiarito il contesto di riferimento, quanto al contenuto voglio dire che se davvero «negli ultimi otto anni, dal 2000 al 2007 compresi, le retribuzioni di fatto dei dipendenti pubblici sono aumentate del 35%, il doppio dell’inflazione che si è fermata al 17%, e molto più dei lavoratori del settore privato che hanno messo a segno una crescita del 20%» – e anche se è vero che «la fonte è Istat» (segnalo l’assenza dell’articolo, secondo il costume moderno di personalizzare ciò che va di moda chiamare “aziende” anche quando di aziende non si tratta; e in questo caso la citazione serve a validare l’incontrovertibilità dell’affermazione) – beh, se anche tutto questo fosse in se stesso completamente vero, niente mi viene però detto sul fatto che – magari – nel decennio precedente a questi otto anni gli stipendi pubblici potevano anche essere rimasti, per esempio, ben al di sotto dell’inflazione, e che gli aumenti recenti si sono – chissà – resi necessari per colmare il dislivello.
Non sto dicendo che è veramente così, ma che siccome è possibile che sia così, io lettore dovrei essere messo nella condizione di non dubitare, e di capire, al contrario, che la notizia non è intenzionalmente monca di un pezzo così come posso accademicamente ipotizzare io, ma è esattamente come scrive il giornale.
In caso contrario – se manca, cioè, quest’attenzione al senso critico del lettore – io posso sempre pensare che l’informazione che mi viene data possa essere viziata da un ipotetico pregiudizio ideologico (che d’altra parte la scelta di alcune parole invece che di altre mi segnala già con sufficiente chiarezza indiziaria).
Infine. Alcune domande.
Facciamo che Brunetta riesca a vincere la sua “guerra” contro “fannulloni” e “lavativi”.
E facciamo che lo Stato arrivi a costare molto meno di prima.
Bene.
Cosa facciamo di “fannulloni” e lavativi”?
Li mandiamo in prigione?
Cosa facciamo delle loro famiglie?
Chi le mantiene?
Lo Stato? L’Inps?
O le facciamo andare a vivere nelle favelas, e che si arrangino?
Insomma: qualcuno dovrà pure farsi carico di chi non può/non vuole lavorare, anche se li mandiamo in campi di concentramento. I quali campi, per inciso, costano pure loro.
Può non piacerci per niente, ma anche procedendo in termini puramente economicisti, questi sono costi non sopprimibili in alcun modo, perché cacciati dalla porta rientrano dalla finestra, fosse anche solo per il fatto che – ipotesi – per “rimotivare” e riqualificare un cosiddetto “fannullone” qualcuno potrebbe pensare che un corso di formazione (che ha un suo costo) possa avere un suo perché.
Rimango convinta che lo Stato ha i suoi costi perché è uno Stato e deve accollarsi – entro certi limiti, è ovvio – anche i costi delle inefficienze.
A meno che, naturalmente, ciò a cui Brunetta e molti molti altri stanno pensando non sia una cosa simile a una soluzione finale, a un omicidio di massa.
In questo caso, le pallottole che Bossi dice di avere a suo tempo comperato a trecento lire andranno benissimo, e sarebbero – oltre a quello della sepoltura – l’unico costo.
Resta solo da stabilire cosa fare dei figli dei fannulloni, rimasti a quel punto senza sostentamento.
Ma forse, dopo una mano di conti, possono essere ammazzati anche loro.
La logica economicista, la deriva binaria e l’idea della dicotomia on-off come dialettica esclusiva della dinamica sociale, se portate alle loro estreme conseguenze conducono qui – all’omicidio motivato da ragioni di risparmio – e non altrove.
Si può decidere che va bene e che ci piace, ma secondo me è importante saperlo.
Chi dichiara guerra ai fannulloni sta facendo un’operazione solo ideologica.
P.s. L’articolo dice alla fine che secondo i tecnici del ministero, “la crescita degli stipendi è stata così generosa nel settore pubblico” per colpa (colpa, eh) della “contrattazione decentrata”.
Viene detto che “i dati significano questo: che nel settore privato la contrattazione decentrata (cioè territoriale o aziendale e quindi” – attenzione al “quindi” – “legata alla produttività) copre meno del 30% dei dipendenti, nel settore pubblico è invece esteso per legge a tutti i dipendenti”.
Cioè: la contrattazione decentrata è per definizione legata alla produttività, almeno nel privato (ma questo è realmente sempre vero?), ed è giusto che “copra” meno del 30 per cento dei lavoratori. L’ingiustizia, insomma, sta nel fatto che la contrattazione decentrata riguardi tutti.
Negli uffici troviamo dall’usciere disabile al superdirettore megagalattico. Un colpo di spugna indifferenziato sarebbe davvero disastroso. Per me è tutta demagogia, poi faranno il solito giochino delle tre carte…
Benvenuto, Aloisius!
Va da sé che concordo, e forse anche di più.
In effetti, se così non fosse non mi spiegherei il motivo per cui ho scritto un intero post. E non saperlo sarebbe piuttosto sgradevole…
Ciao
ma Federica, perché scandalizzarsi sulle parole ? i fatti, ovvero che troppa gente negli anni ha abusato dei privilegi di un posto di lavoro mascherato furbescamente da diritto, sono infinitamente più gravi del fatto che ci siano o meno le virgolette.
che i privilegi fossero mille o novecentonovanta non mi pare il punto dolente della questione e non cambia la sostanza dei fatti, cioè che tanta, troppa gente abbia rubato risorse negli anni, e che i derubati (tra i quali per esempio io) siano contenti di sentire che non dobbiamo per forza rassegnarci a questo furto legalizato.
sappiamo bene che fra pubblico e privato non c’è differenza sostanziale quanto a fannulloni, certo però che in ambito pubblico la protezione delle sanguisughe è impenetrabile.
tu sai bene che sono per aiuare chi non ce la fa, e sono per perdonare, e sono per fare sempre buon viso a cattivo gioco, ma quando tu aiuti uno e scopri che questo ruba e gli dici “senti, io ti aiuto sempre, ma per favore non rubare più” e questo continua a rubare, e continua e continua, tu che fai ? continui ad aiutarlo sottraendo risorse a chi ha più bisogno di lui perché ti poni il problema del “poverino, se è solo capace di rubare cosa potrà mai andar a fare se non lo aiuto più”?
pedate nel culo, mia cara, per quanto mi riguarda, e non ditemi che son fascista
lo stato ha i suoi costi perché deve anche prendersi carico delle inefficienza. perfettamente d’accordo. però non che debba continuare a non curarsi delle inefficienze perché tanto può sempre riversarne i costi su chi lavora davvero. cazzarola.
Quattro cose.
La prima: non mi scandalizzo sulle parole. Semplicemente, decodifico l’universo ideologico a cui appartengono, identificato dal loro senso intrinseco e anche dalle virgolette. A me pare che ci sia differenza; se tu non la vedi e preferisci pensare che io stia facendo del formalismo bizantino, pazienza. Ognuno la pensa come vuole.
La seconda: ho riletto il post, e non ho trovato la parte in cui avrei scritto che sono favorevole al furto legalizzato.
La terza: onore a chi aiuta o perdona, ma l’idea di “aiutare” o “perdonare” non ha il minimo legame con quello che secondo me dovrebbe fare uno Stato, che io non riesco a vedere come un’entità moralista.
La quarta: non mi piace il lessico squadrista che contempla l’uso di parole come “sanguisughe”, e neanche mi piace la modalità squadrista che definisce formalista ogni preoccupazione legalitaria e ogni interesse per i risvolti istituzionali dei fenomeni.
Ora che rifletto ce n’è una quinta: non mi piace confondere il piano individuale con quello politico: le pedate nel sedere dalle a chi vuoi, se sei un privato cittadino (tanto poi, finché li lasciano esistere, ci sono i tribunali); ma non ti sognare neanche di pensare, da privato cittadino, che lo Stato sia l’entità che dà le pedate nel sedere al posto tuo.
Perché questo è – sì – fascismo.
uhm… non mi hai convinto. da un lato va bene, decodifichi un linguaggio perché ad alcuni potrebbero sfuggire i sottintesi che un uso strumentale delle parole (o dell’uso o meno delle virgolette) nasconde. l’operazione è utile e gradita e se il tema del post fosse quello, a prescindere dal contesto, ti seguirei. ma in questo caso stiamo parlando del fatto che i lavoratori del pubblico siano o meno da considerarsi privilegiati sotto alcuni aspetti (dieci, cento o mille non fa differenza). a me pare che questo fatto sia assodato, virgolette o meno. se vuoi parliamo del perché io lo pensi, ma allora scendiamo nel vivo dell’argomento, ma le virgolette tornano ad essere bizantinismi.
ma perché “sanguisuga” dovrebbe essere lessico squadrista? il mondo non è più bi-blocco, tu stessa sei promotrice della complessità. le parole non sono appannaggio di gruppi e “sanguisuga” indica semplicemente un essere che vive usando indebitamente risorse vitali altrui, siano queste sangue, fondi statali o altro.
punto 3: naturalmente lo stato non dev’essere entità moralista, ma affrontare i problemi sociali e lavorare nella direzione dell’equità, tra i cui principi c’è anche quello di non sprecare risorse inutilmente. ovvio, niente calci di stato nel sedere dei fannulloni, ma neanche manna a pioggia su chi vuole vivere al traino per incapacità a responsabilizzarsi. il mio metaforico calcio nel culo significa soltanto chiudere i rubinetti ai ladri.
non trovo nulla di male in uno stato in cui ci sia spazio per la meritocrazia, e so che anche tu la pensi così, quindi non litighiamo sui bizantinismi, ti prego!
Non sono d’accordo.
Non sono bizantinismi.
Definirli così è offensivo.
Comunque sì, non ho nessuna intenzione di litigare, è ovvio.
dai, avanti, non ti offendere. non era in senso dispregiativo. intendevo dire che di fronte al tema dell’abuso indebito di risorse il nome che diamo a questo abuso a me personalmente pare secondario.
in secondo luogo riconosco che si può usare furbescamente la parola, il costrutto della frase, perfino la punteggiatura per far passare subdolamente per aquisiti concetti tutti da discutere, ma mi viene da dubitare che fosse questo il caso dell’articolo in esame. non lo farei così sofisticato. ma qui sei tu quella del mestiere e lo saprai meglio di me.
Io non credo che sia un problema di nome che si dà ai fenomeni, ma di lettura dei fenomeni.
E penso che il problema non sia la sofisticatezza o l’ingenuità del pezzo del Corriere. Però vabbè.
Fa lo stesso.
Al mondo si può pensarla diversamente anche se si è amici.
Ma come ci hanno ridotto.
Ma come ci siamo ridotti.
Non riusciamo più neanche a vedere qual’è il nocciolo della questione.
E’ giusto incavolarsi perchè questo governo fa finta di voler risolvere le cose al suo solito modo: semplicismo, demagogia e qualcun altro a cui scaricare le colpe.
E’ altrettanto giusto essere stufi di questa eterna inefficenza, che diventa prevaricazione e che costa a tutti noi fatiche ed anche soldi.
E allora dove sta il dunque, dove sta la differenza tra noi e gli stati che trattano i loro cittadini da veri cittadini e non da sudditi?
Perché è questo che ci hanno fatto, e non da ora, non da dieci anni, se va bene è dalla repubblica o addirittura dall’unità d’Italia.
Da qualche tempo sono arrivato alla convinzione che prima di qualsiasi discussione politica è necessario e vitale ritrovare IL SENSO DELLA POLITICA. Prima di qualsiasi discussione dobbiamo pretendere che lo stato sia e diventi il nostro rappresentante e difensore e non un’altro dei poteri con cui ogni giorno combattere le nostre battaglie perse in partenza.
Non sono un’illuso, negli altri stati il cittadino non ha un potere enorme, ma qualche diritto più di noi ce l’ha; e non si tratta dei diritti sulla carta perchè in quello siamo bravissimi, ma di diritti reali cioè di quello che la res pubblica deve rendere al cittadino.
La soluzione non ce l’ho ma come tanti altri che un poco hanno girato il mondo sono davvero stufo di vedere le enormi differenze tra le altre democrazie e la farsa della nostra.
Il senso della politica, hai ragione.
E’ che manca l’abc, Andrea.
Manca l’abc del senso della politica e del senso dell’istituzione.
Ma da dove si possa ripartire è veramente difficile capirlo.
Io penso che non ci sia speranza.
Che fra Grillo, Veltroni e Di Pietro non preferisco nessuno.
Stamattina leggevo che la Gelmini, la ministressa dell’istruzione, menava scandalo che nella scuola il 97 per cento del bilancio è destinato al personale.
Ma scusa: cosa c’è di strano nel fatto che la scuola sia fatta di persone? Di maestri e professori, soprattutto, e di bidelli, e di segretari?
E soprattutto: le scuole elementari comunali – come dice la parola – sono dei Comuni; l’edilizia scolastica fa riferimento alla Provincia; le dotazioni in computer e altre macchine immagino siano del Tesoro…
In che cosa deve spendere, dunque, il ministero dell’Istruzione, se non in persone?
Eppure, vedi? Lei subito a dire che pagare le persone è uno spreco.
Ha trentun anni (o forse 35), e arriva fresca fresca a raddrizzare il mondo.
Non so tu, ma io non reggo più neanche a questa fot**** retorica giovanilista.
Più che all’opera, sono ormai all’operetta. Non ricordo chi abbia detto “rimpiango i governi democristiani” (Travaglio?). Ad ogni modo arrivati a ‘sti livelli, quasi quasi li rimpiango anch’io…
Io non reggo più la retorica, nè giovanilista nè di nessun altro tipo; ma soprattutto non reggo più il fatto che non ci sia più, sempre ammesso che ci sia mai stato, il rispetto del cittadino e della persona.
E sì Federica, è l’abc che manca, perchè tra Politica e politici passa davvero una bella differenza, ma questi ultimi si sono rubati anche questa.
Non so neanch’io da dove si possa ripartire ma una cosa positiva la conosco: non occorre neanche essere dello stesso orientamento politico ma basta provare quel minimo di schifo per chi ha fatto, e continua impunemente a fare, res propria della res pubblica.
e’ vero, a questo punto nn c’e neanche piu’ da badare allo schieramento, sarebbe rincuorante anche solo avere tutti un unico obiettivo e un’unica volonta’.
questa storia dei privilegi del pubblico impiego andrebbe raccontata da un insider secondo me.
ne ho una in casa, mia madre, e nn la vedo ne privilegiata ne soddisfatta da anni ormai…
pensare che lei ha sempre insistito perche’ io mi trovassi un impiego nel privato, “perche’ vedrai che li’ dei tuoi meriti qualcuno si accorgera'”.
me ne sono accorta da sola e sono emigrata.
Fatico a capire il senso profondo di questa polemica. Provo a spiegarmi: le sacche di inefficenza all’interno di uno Stato sono inevitabili. E fin qui ci siamo. Tentare di contrastarle quindi è inutile, soprattutto utilizzando metodi “fascisti”. Sarebbe un po’ come dire che, visto che comunque si deve morire, non vale la pena di tentare di curare in qualche modo le varie malattie o infermità che ci capitano. Ho capito bene? Detta così la cosa non mi suona molto bene, ma forse sono io che non ho capito il senso profondo della questione…
Che poi della retorica non se ne possa più siamo tutti d’accordo, ma ormai siamo arrivati al punto che non se ne può più e basta, indipendentemente dall’oggetto del discutere.
Però non è che dicevo che siccome si deve morire, allora tanto vale non curare.
E’ che non mi piace proprio il tipo di cura proposto.
Per quel che vale, eh…
Ciao, Giacomo.
E’ sempre carino vedere arrivare gente nuova…
Una qualunque Ambasciata italiana a caso; mi presento assieme a un’amica per richiedere un visto turistico per l’Italia. Due ore di coda per scoprire che la gestione dei visti è stata appaltata a una società esterna: inizio ad alterarmi perché potevano evitarmi la coda con un semplice cartello scritto a mano.
Camminata fino alla sede della società esterna: non danno informazioni e rimandano a un sito internet. L’alterazione cresce.
Sul sito sono marcatamente riportati documenti VECCHI: richiedono ancora le Lire a garanzia del viaggio e per il rilascio del visto.
Prepariamo tutti i documenti e le traduzioni in italiano validate dal Notaio: circa 250 $ di costi e due settimane.
Consegniamo i documenti e chiediamo quando si potrà avere notizie: da 10 a 30 giorni, ma nel frattempo richiedono il pagamento anticipato – 45 Euro – del visto anche se non si sa ancora se sarà rilasciato; e non rimborseranno il prezzo in caso di rifiuto.
Non solo, vorrebbero ‘venderci’ la Lettera d’Invito, che avevo compilato e sottoscritto io, perché quella che abbiamo scaricato dal sito è ‘vecchia e non utilizzabile’. Ce la rifanno loro, traduzione in italiano compresa, al modico prezzo di 10 Euro: ci rimangono male quando scoprono che parlo e scrivo discretamente in italiano e gli tocca consegnarci la Lettera d’Invito aggiornata senza costi. La mia incazzatura continua a crescere.
Consegniamo i documenti ed è tutto in regola; dopo 3 settimane ancora nessuna notizia e, all’ennesima telefonata, mi sento rispondere da uno degli stronzi dell’Ambasciata se “non mi pare di esagerare”. Litigo, mi faccio dare il nome e gli prometto, al prossimo viaggio, di andare di persona a spaccargli quel suo culo di merda e, nel frattempo, di dare in pasto alle Iene i filmati girati nel centro visti con la richiesta di costi assurdi e non documentati (tangenti! si chiamano) da parte degli impiegati locali, pagati dall’Ambasciata. Calcolando a occhio e considerando un afflusso medio giornaliero di almeno 100 persone, sicuramente sottostimato, si fanno 1000 Euro al giorno solo ‘vendendo’ Lettere d’Invito non aggiornate.
Si ferma un attimo, prova a protestare, poi mi lascia un numero non pubblico e mi dice di chiamare nel pomeriggio.
Nel pomeriggio mi conferma il visto.
Faccio notare alcuni particolari.
L’Amica in questione è una docente di Psicologia che ha girato mezzo mondo e nelle altre ambasciate (Svezia, Francia, Spagna, persino Grecia, etc…) ha ottenuto il visto in una settimana.
Queste sono persone che, male che vada, si mettono in tasca almeno 10.000 Euro al mese. Se qualcuno dovesse lasciarli a casa e mandarli a lavorare in fonderia non farebbe altro che un piacere all’Italia e a noi.
A questo punto posizioniamo gli apici dove vogliamo, facciamo tutte le analisi lessicali del mondo, ma questo è lo standard tipico della maggior parte della Pubblica Amministrazione Italiana. Dovessero servire altri esempi documentati e documentabili (Ministeri, Comuni, Scuole, Università, Militari, Ospedali, etc…) sono disposto a collaborare.
Blackjack.
Benvenuto, Blackjack.
Sono perfettamente d’accordo con te, tant’è che la fascinazione dell’espatrio diventa purtroppo sempre più forte (e pure dolorosa).
Però io non è che ho mai detto che chi non fa una mazza è giusto che continui a non fare una mazza, o – peggio – a mangiarci sopra…
A me pare di aver detto che fenomeni come questi hanno radici complesse, e si affrontano con la capacità di cogliere la lolro complessità, credo, e non con quell’atteggiamento ideologico che mira a raccogliere facili consensi fra i cittadini, indipendentemente dall’effettiva realizzabilità dei progetti moralizzatori.
Se in un’organizzazione si tollerano persone apparentemente controproducenti – nel pubblico come nel privato – è perché in questo modo il tasso di conflittualità interna si abbassa drasticamente, e perché chi ha qualcuno da ringraziare è senza dubbio più mansueto di chi, al contrario, ha solo da far valere le sue capacità.
Coloro che va di moda chiamare fannulloni, insomma, sono spesso coloro sulla cui schiena centinaia di dirigenti – nel pubblico e nel privato – hanno edificato le loro fortune professionali all’interno delle cosche lavorative alle quali in questo Paese sembra obbligatorio affiliarsi per avere anche una sola piccola speranza di vivere in un qualunque luogo di lavoro.
Come vedi, la questione non sta né nelle virgolette né negli apici.
Sbaglio?
Ciao
Mi fa piacere che tu, che sei una giornalista scrittrice, abbia scritto un articolo corretto su questo argomento. Sugli “statali” c’è una campagna mediatica enorme, che ha lo scopo di deligittimare tutto ciò che è pubblico, in favore, ovviamente, delle privatizzazioni. Penso che l’articolo del corriere sia il solito pezzo scandalistico che va di moda. Su questo aspetto mi permetto di segnalare una polemica con due giornalisti dell’Espresso, che hanno pubblicato un articolo enfatico, che usa in maniera strumentale un rapporto del Ministero. Ho, tra l’altro, fornito dei dati sugli stipendi, elemento che viene di solito tenuto accuratamente nascosto, perché ribalterebbe in un soffio tutto il castello di carte della propaganda.
Qui:
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/05/25/notizia-le-morta-2/
e qui:
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/06/09/una-replica/
Grazie.
Ciao, Mauro.
Ho letto.
Io non so se l’obiettivo sia ciò che tu definisci privatizzazione del pubblico: in realtà, per le esperienze anche dirette che ne ho, a me sembra che l’obiettivo sia sostanzialmente raggiunto da molti anni, perlomeno nella zona dove vivo io.
Certo, però, che gli statali che io conosco sono tutt’altro che nababbi – eccezion fatta per quel particolare tipo di statali che adesso vanno sotto il nome di manager, che magari nababbi non sono ma insomma neanche poveracci – e ciò che sanno è che a poco a poco – con un iter che somiglia maledettamente a quello di cui fa silenziosa esperienza anche chi lavora nel privato – le motivazioni per lavorare diventano sempre meno, giorno per giorno.
Nemmeno il 27 basta più.
In tutti i sensi.
Nessuno dice che le cose funzionano alla grande.
Però non è che adesso arrivano i furboni e in tre minuti raddrizzano tutto facendo una mano di conti, come una brava massaia.
No?
Benvenuto.
(Ma Brunetta tira più del famosissimo pelo, eh?)
Federica, sono d’accordo che questi fenomeni hanno radici complesse, ma discutere sulle radici, anche se interessante e appagante culturalmente, non porta da nessuna parte. A me, scusami se banalizzo, interessa sapere che se vado in un’Ambasciata Italiana (trascorro molto del mio tempo all’estero) riesco a trovare ciò che mi serve e, sopra tutto, che le persone che ci lavorano sono lì perché hanno qualcuno per cui lavorare. Lo stesso vale per i Comuni, gli Ospedali, i Ministeri e tutta la catena pubblica che, pur con stipendi non da nababbi, ha un livello di produttività da far pena e un costo paragonabile se non superiore a quello di Paesi molto più efficienti che erogano servizi migliori con meno persone. Peccato che i risultati restituiti alla Comunità in termini di servizi, cioè a noi, non siano all’altezza dei costi della struttura e, ribadisco: non fanno testo i salari bassi a fronte del (quasi) sempre esagerato numero di addetti fancazzisti.
Qualcosa si deve fare e presto. Non sostituire chi va in pensione? Potrebbe essere un’idea. Aumentare i livelli di controllo sicuramente e arrivare, finalmente, alla possibilità di licenziare chi non fa ciò che deve fare.
Rimango in tema Ambasciate: Budapest. Qualche anno fa, a cavallo fra il ’98 e il 2000 se non ricordo male, fu scoperto un giro di bustarelle per concedere i visti alle ragazze che venivano in Italia a lavorare nei night. Qualche articolo sparso e poi più nulla. Pensi che chi fu preso con le mani nel sacco sia stato licenziato? Ho qualche dubbio, anche se non ho più verificato, ma mi viene il ragionevole sospetto che sia stato spostato a incassare bustarelle da qualche altra parte dopo la classica tirata d’orecchie.
I Manager: bella storia. Peccato che si parli di loro solo quando incassano liquidazioni milionarie (in Euro) e troppe poche volte si vada a sbirciare da dove arrivano tutti questi dirigenti, o dirigibili come li chiamo io.
La privatizzazione a tutti i costi non la vedo come l’obiettivo finale, nessun privato è in grado di reggere un sistema pubblico complesso e non ha senso (frutta di più ed è meno rischioso economicamente lavorare per nicchie), certo è che ci sono stati alcuni casi eclatanti (vedi ad esempio la terziarizzazione dei servizi infermieristici in alcuni Ospedali romani) che, conti alla mano, era più onerosa e meno efficiente dei servizi erogati dai dipendenti assunti. Chi a suo tempo fece quella scelta, arricchendo qualche Cooperativa, che fine ha fatto? Dove l’hanno mandato a fare altri danni?
Su questi episodi, e chiudo, qualche colpa ce l’ha anche la stampa che si azzanna per lo scoop e poi, passato il clamore che fa vendere più copie, molla la notizia lasciandola morire. Anche questo sarebbe un meccanismo da approfondire, visto che sei del settore e sul quale sì, andare a scavare ed evidenziare le radici del fenomeno.
Blackjack.
Caro Blackjack dissento. Non della necessità di cambiare questo stato di cose; ma del fatto che il problema non stia nelle radici. E’ nell’abc, nell’essere cittadino e non suddito, è che il posto nel pubblico è bacino di consenso, è che nessuno di noi ha il diritto di avere delle risposte e dei servizi in tempi ragionevoli. Ma l’asino non diventa cavallo se lo batti più forte sulla schiena e neanche se lo cronometri sul percorso.
Anche io ho girato un po’ il mondo ed ho visto che in giro non in tanti si sbattono come noi italiani. Ma ho visto anche che diritti ed obblighi sono chiari precisi e misurabili; Quello che ti spetta lo ottieni e quello che non ti spetta neanche se lo paghi. Da noi c’è invece sempre una seconda via, per gli amici, per gli amici degli amici o per chi è un po’ più furbo. Gli altri si arrangino.
Domanda semplice: hai provato a stare in una coda? Perchè qua da noi devo sempre stare attento a qualcuno che crede di essere più furbo?
Il problema è nelle radici e se andiamo avanti così l’albero ci casca addosso.
Blackjack, concordo con Andrea.
Tenendo da parte la questione delle radici, che tu sembri ritenere intellettualistica (e io no, ma pazienza), volevo dirti che – sulle responsabilità della mia professione, dei miei colleghi e mie – su questo blog trovi un certo numero di post.
Prova a mettere nel campo “cerca” la parola “giornalismo” (uno dei tag più ricorrenti, qui dentro: non so se è un bene!) e armati di un po’ di pazienza.
Troverai certamente.
Ciao
Andrea, Federica: non c’è nulla di peggio che scrivere come gioco a carte. Se per tornare alle radici intendiamo riacquistare senso civico e ripulire l’Italia dalle furberie e dalle raccomandazioni: sono completamente d’accordo.
Discutere invece delle ‘radici’ che hanno ridotto il pubblico impiego in questa situazione, mi pare invece assolutamente inutile: i processi democratici, quando si tratta di riorganizzare, fanno solo perdere tempo e denaro e non modificano nulla.
Blackjack.
PS: per il resto, con calma, seguirò il consiglio.
Blackjack,
forse ho capito male, magari non intendevi dire questo, però ti garantisco che non scrivo come se stessi facendo un gioco con le carte.
Io non credo che la riorganizzazione – definizione che tu dai di un “progetto” che ritengo infinitamente più complesso di una riorganizzazione – sia cosa che possa andare fatta senza riguardo ai processi democratici, che fanno perdere tempo.
Però sono sicura che non posso convincerti di ciò che penso io, perciò accetto il tuo punto di vista come un punto di vista diverso dal mio e stop.
Capire che la discussione e il dialogo non consistono nel sapere o nel voler convincere un interlocutore, ma solo nell’ascoltarlo e nel cercare di capire come i suoi argomenti si intrecciano coi tuoi è una delle conquiste migliori (ma ce ne sono tante altre!) dell’età adulta, credo.
Ciao
Federica: mi riferivo alla MIA di scrittura!!! e scusami per il fraintendimento; quello che gioca a carte sono io.
Chiamiamolo anche progetto e in qualche caso mi sono trovato a doverne gestire. Quando si attiva un progetto e si parte dal presupposto di voler dare retta a tutti… i tempi e i costi decollano e non si arriva mai da nessuna parte. Ovvio che si ascoltano tutti gli interlocutori, ma alla fine, una volta sentiti i pareri di tutti gli attori in campo, qualcuno deve fare una scelta e una scelta non è mai ‘democratica’: penalizza sempre qualcuno.
Scambiare idee e discutere senza pigliarsi a calcioni è un’arte difficile e non sono mai riuscito a capire perché non esista nessun corso nelle Università italiane.
Blackjack.
Blackjack, già siamo più vicini, è il senso civico, del diritto e del dovere che mai possono essere disgiunti, che vanno recuperati. Ma altrettanto importante è capire a che punto abbiamo perso la strada del civismo per poterla riprendere nuovamente.
I “processi democratici” fanno parte delle regole del gioco e sono imprescindibili. Ti faccio solo un esempio: in Germania per gestire il caos della riunificazione hanno forse anche solo accennato di sospendere i processi democratici? eppure per un po’ di tempo, loro abituati al massimo ai socialdemocratici e reduci di una guerra fredda di frontiera, si sono ritrovati in parlamento anche dei “veterocomunisti”.
Eppoi, proprio in questo momento, setire dire che i “processi democratici” sono una perdita di tempo mi riecheggia nelle orecchie i “me ne frego” di lontana memoria.
Blackjack, scusami: avevo equivocato.
D’altra parte, col nick che hai, dovevo capirlo che quello che gioca a carte eri tu…
Federica, perdonami, ma l’esempio della Germania mi pare il meno adatto. I veterocomunisti tedeschi erano cariatidi squattrinate, quattro gatti disperati senza soldi e senza speranze: un tocco di folklore che ha anche fatto comodo ed è stato utilizzato dalle forze politiche che avevano i numeri e i mezzi economici per gestirli.
Ma è un discorso lungo e, se proprio devo citare un esempio democratico, preferisco la divisione, senza beghe, sberle, casini, della Cecoslovacchia, in Repubblica Ceca e Slovacchia. Un esempio ignorato e snobbato da tutti e che meriterebbe analisi e considerazioni profonde: è uno dei primi, se non l’unico caso, di divisione consensuale con un semplice referendum. Nemmeno una bomba carta. Chapeau!
Per tornare al tema: io alle concertazioni non credo, alle consultazioni sì. Ma non possiamo fare come in Italia che tutti, anche quelli che non ne hanno diritto (e il primo esempio che mi viene sono i sindacati), vogliono governare. In nome di chi non si sa, ma partendo da questa pretesa ‘democrazia’ si dimenticano di fare il loro lavoro: e il risultato sono i salari più bassi d’Europa. Per amor di patria risparmio Portogallo e Grecia che ci sono alle spalle.
Questo intendo. Che si debba sentire il parere delle varie componenti sociali, mi pare ovvio e naturale, ma che si debba sempre accontentare tutti, scusami, ma produce solo il mare di leggi e leggine (traduci in merda) che ci sta seppellendo e che rende impossibile qualunque decisione che non sia la solita pezzuola riscaldata. Da quanti anni si parla di riforme?
Blackjack.
Mi sa che volevi replicare ad Andrea, Blackjack.
Ciao
BJ,
Tanto di cappello al tuo esempio!
Per quanto riguarda il resto sono completamente d’accordo. Democrazia non è accontentare tutti a tutti i costi.
Democrazia è rispetto delle regole e regole rispettabili (poche, sensate, serie e ragionevoli) e qui manca sia il primo che la rispettabilità delle seconde.
A
Cara Federica, grazie per avermi rimandato – dal post su Brunetta II, al quale ho risposto – a questo tuo precedente, ottimamente articolato e che condivido assolutamente in toto. Che altro aggiungere? Sì, è vero, c’è un difetto proprio nel manico di noi italiani, e lo si vede appunto anche nella nostra esperienza delle code davanti allo sportello. Come pure nei giardini pubblici sporchi di cartacce e lattine, come pure (altra esperienza per me moralmente devastante) nella agghiacciante fenomenologia dell’italiano medio all’estero. Le parole, i concetti e l’uso che ne viene fatto ai vari livelli rimandano a realtà profonde, e alcune nostre realtà – pubblici, privati, qualunque distinzione di ceto classe o profilo professionale qui non ha senso – non sono piacevoli da contemplare. Ripiombando dalle altitudini semantiche all’humus socioculturale brunettiano, che dire a coloro che, animati dalle migliori intenzioni certamente, pur non cedendo alla demagogia puntano il dito contro sprechi, inefficienze e insufficienze umane e strutturali della pubblica amministrazione? Hanno ragione, quelle insufficienze ci sono e bisogna senza dubbio affrontarle. Ma non – vi prego – con Brunetta. Brunetta è l’ipostasi dell’ideologia produttivista, del lavoro finalizzato al lavoro e che alla fine della fiera non sa più nemmeno perché si lavora se non per il fine di lavorare, di Crono tiranno che mangia i suoi stessi figli, dell’idolatria manchesteriana del lavoro in quanto tale, dell’ossessione per la misurazione quantitativa, fordista-taylorista del lavoro dell’uomo-macchina, del supremo valore della vita fatto consistere in quanto si produce in quanto tempo per la soddisfazione del “cliente” (altro concetto spaventoso, altro figlio divorato dallo stesso Crono). Null’altro conta, non contano le individualità, le persone nella loro interezza, le specificità di vite e carattere, i talenti e le repulsioni, i valori e i disvalori della persona, l’unica cosa che conta è il prodotto. Ritengo che Brunetta e tutti quelli come lui – e non tocco, per non fare a mia volta demagogia, il tasto, che pure esiste, dell’ipocrisia di chi pretende di fare il moralizzatore del piccolo impiegato doppiolavorista avendo lui a sua volta, e a ben altri livelli, più incarichi e redditi comodamente cumulati – ritengo che costoro siano, tra tutti, proprio culturalmente, per l’idea del mondo e del’uomo e della relazione tra mondo e uomo che hanno, una iattura tra le più disastrose.
Sì, hai perfettamente ragione.
Il cliente, poi.
Il cliente diventato sostitutivo del concetto di cittadino.
Il «cliente-consumatore”.
Ne ho la nausea…