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il sommo merlo canta lassù tra i bossi
Francesco Merlo sta là in alto, così in alto che nessuno può raggiungerlo. Nemmeno vederlo, quasi quasi, se non come un puntino minuscolo che pieno di splendore rifulge nel cielo opaco delle minime intelligenze contemporanee.
E da lassù, cibandosi poco poco di una specie molto rara di piccole e deliziosissime ostriche in via di estinzione, irride con grazia aristocratica e sublime a chi gli sta sotto con la condiscendenza del nobilissimo osservatore distaccato.
Oggi sulla Repubblica scrive sulla fiction che il regista dello «zingarume romeno» ha imbandito a vantaggio dell’improbabile e avventurosa para-storiografia leghista su Federico Barbarossa e Alberto da Giussano.
E pur dicendo una cosa assolutamente vera – e cioè che mai la Rai, che lo sceneggiato produce, cioè finanzia, è scesa tanto in basso – aggiunge pennellate di snobismo (e vabbè, uno può anche forse perdonargliele) e di sufficienza che lo portano a sostenere opinioni così ardite, raffinate e rarefatte da apparire del tutto irragionevoli, contraddittorie, ambigue e contro l’evidenza.
Tipo questa: «Ciò che rimane ancora incomprensibile è perché i famosi imprenditori del Nord debbano sopportare una simile rappresentanza culturale di se stessi. Davvero per difendere gli interessi economici della cosiddetta borghesia settentrionale bisogna mettere in piedi questo teatrino dei pupi? Perché l’imprenditore veneto deve avere come intellettuale organico un piazzista politico, un uomo senza professione, un geniale pataccaro? Perché una delle grandi borghesie regionali d’Europa, che pure ha prodotto la migliore cultura d’Italia, deve permettere che il suo immaginario intellettuale e storico si popoli di queste fetecchie, di questa monnezza che puzza molto più di quella di Napoli?».
Dal basso, dalla palude della mia miseria, voglio dire al sommo Merlo che l’imprenditore veneto, ben lungi dall’aver prodotto la migliore cultura d’Italia (la quale a me non pare affatto essere produzione veneta; ma io sono veramente poca cosa, non abito nell’Olimpo merliano né fisicamente né culturalmente. E nemmeno gastronomicamente, potrei dire se volessi – come pare – esagerare) è esattamente quella cosa lì: quella che si riflette in Bossi, nella Lega, in quel tipo di cultura che non capirei di cosa potrebbe mai essere espressione se non dell’imprenditore veneto che Merlo eleva agli altari. Pur lasciando baluginare l’autentica luce ambigua del genio che s’interroga e persevera nel dubbio in incisi come «cosiddetta borghesia settentrionale».
Penso che a volte il desiderio di dar prova della propria capacità di lettura fatua, sorridente e tangenziale dei fenomeni possa essere irritante, e dare luogo a spiacevolissimi strabismi interpretativi, a equivoci pesanti.
A me, per esempio, questa cosa m’ha proprio messo di malumore.
Lei è troppo severa con gli imprenditori del nord est, ma non con Merlo. Con Merlo ha ragione, anche se per motivi diversi da quelli che opporrei io. Merlo parla di una realtà che evidentemente non conosce. Egli associa alla Lega Nord un’imprenditoria diversa da quella che vota Lega. Vota lega il piccolissimo imprenditore senza dipendenti o al massimo con 2-5 dipendenti. Il medio imprenditore, con la fabbrica e i 50-100 dipendenti o più, erede del possidente della Marca e del vicentino, che fa sì parte di una della grandi borghesie regionali d’Europa, non vota però lega e, secondo me, non vota neppure a destra, perlopiù.
Io credo anche che l’imprenditoria veneta, nella sua millenaria storia veneziana prima e italiana poi, abbia davvero costruito una delle migliori culture d’Italia e aggiungerei d’Europa, comparabile senz’altro a quella toscana, lombarda, emiliana, napoletana, siciliana e forse persino superiore a molte di queste per discipline, esponenti, complessità, correnti (superiorità non morale o spirituale, s’intenda, bensì meramente quantitativa).
Vabbè.
Io non lo credo.
Tra l’altro, non so in che relazione possa essere l’imprenditore veneto – piccolo, medio o grande – con la «millenaria storia veneziana prima e italiana poi».
Ma non fa niente, no?
Ognuno pensa come crede.
In ogni caso, benvenuto.
Grazie. “Ognuno pensa come crede” è assunto condivisibile, basta che uno non creda solo a ciò che pensa. Per quanto mi riguarda esiste una dimensione oggettiva delle cose e della realtà, ed esse sono argomentabili per mezzo di prove la cui esistenza è condivisibile fra individui (ma certo sono io che la penso così e “ognuno pensa come crede”: senza dubbio un’espressione che taglia teste e quant’altro come la scure del boia).
Lei dunque non pensa che i detentori e gli organizzatori del potere economico di una città, di una regione o di uno stato contribuiscano in misura essenziale allo sviluppo di qualsivoglia espressione culturale in quella città, regione, stato? E se la borghesia veneta è europea (ma anche se è semplicemente borghesia) ciò non si significa che ha prodotto, per la sua parte, cultura perlomeno “borghese”, nelle varie discipline?
Forse io non la penserei così, se il marxismo non mi avesse insegnato (a me e ad altri) che la cultura è una sovrastruttura come un’altra, poggiante sulla struttura della lotta di classe e quindi, fondamentalmente, sui presupposti economici di qualsivoglia civiltà. A meno che Lei non intenda asserire, rinnegando legami fra potere economico e cultura, che quest’ultima è sempre dipesa unicamente dalle classi povere di mezzi e prive di potere economico. Tesi avvincente e vagamente brechtiana per giunta, sebbene da argomentare. Rimane il fatto che la creazione di opere artistiche, scientifiche, letterarie e insomma di tutto ciò che ha sempre costituito, nel suo insieme, la cultura di una civiltà, ha sempre avuto costi elevati ed è sempre esistito in presenza di un’attiva classe imprenditoriale. Un saluto. CS
Ciò che non credo è che nel Veneto esista qualcosa di simile a ciò che si può definire – come dice Merlo – «una delle grandi borghesie regionali d’Europa, che pure ha prodotto la migliore cultura d’Italia».
È su questo punto che dicevo che ognuno può pensarla come crede.
Nel senso che l’idea di ciò che sia migliore è senz’altro comunicabile, ma è di sicuro definibile solo in stretta dipendenza dai giudizi di valore presupposti da colui che parla.
Ecco perché non so se ha senso stare a ragionare a lungo se sia meglio la cultura toscana o campana o veneta.
A me basta sostenere che non sono affatto sicura che quella veneta sia la migliore (né d’altra parte credo che lo pensi Merlo, il quale diversamente non avrebbe scritto «la cosiddetta borghesia settentrionale»).
Prima di dire che qualunque cultura è la migliore, inoltre, bisognerebbe conoscere ogni cosa di tutte le culture: e anche ammesso che si riesca ad elencare tanto le cose quanto le culture, io certamente non ho – delle une quanto delle altre – conoscenza sufficiente a istituire una gerarchia.
Quel che posso dire è che a me l’affermazione di Merlo non sembra vera.
Ma so che ciò che per me è vero può non esserlo per un altro, tant’è vero che lei parla di superiorità quantitativa della cultura veneta.
Quanto all’altro argomento: sì, penso certamente che i detentori del potere forgino la cultura del territorio. Ma sono pure certa che, com’è inevitabile, ne siano anche espressione.
Se non altro perché vengono cronologicamente dopo altre classi dirigenti che li hanno preceduti.