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cronaca di una presentazione
Innanzitutto, Carlà non c’era.
Mi ha mandato un sms dicendomi che faceva tardi all’Esselungà, ma mi sa che in realtà se l’è presa per il mio post di ieri, e adesso chissà quanto tempo devo impiegare per recuperare un’amicizia che mi stava dando tante soddisfazioni.
Poi. Prima di entrare, un piccione mi ha cacato in testa.
È stata la prima volta nella mia vita (e non ho capito se è il mio stato cu** fino a ieri o sarà cu** dalla cacata in poi).
Mi sono istintivamente (e con grande intelligenza) passata una mano tra i capelli, coltivando ancora l’insensata speranza che si trattasse di una goccia un po’ grossa di pioggia.
Ma la temperatura del materiale in questione – 37-40°, circa – mi ha definitivamente convinto che era cacca di piccione.
Snort.
Il risultato immediato è stato che non ho potuto stringere la mano a nessuno per una decina di minuti. Stavano giusto arrivando tutti…
Però potevo sempre sorridere e dire «grazie, che bello che sei qui» (naturalmente non mi rivolgevo al piccione).
Per fortuna, mi hanno scortato nelle segrete della libreria, fino al bagno.
Dove c’era l’alcool denaturato, così mi sono stra-strofinata i capelli e la mano.
Tanto tanto.
Ogni tanto pensavo che da qualche parte avevo letto che l’alcool non disinfetta, e che – leggendo questa cosa – avevo detto a me stessa che tutto il bruciore sulle ferite di quand’ero piccola poteva essere evitato.
Dopo il trattamento puzzavo come un’ubriacona.
Ma in borsa avevo il profumo, e l’ho spruzzato sulla testa (già che c’ero, anche addosso).
Adesso mi verrà la chierica, credo.
E comunque il misto di odori non era carinissimo però neanche troppo preoccupante.
La stanzetta era abbastanza piena, ma va detto che non era una stanza grande, anche se alla fine della presentazione un tipo gentile della Feltrinelli m’ha detto «Visto? Era pieno! È andata bene! Sarà contenta!».
Di bello c’era che era la sala dei libri in inglese, e io ho potuto comprare senza nemmeno cercarlo, perché mi è praticamente venuto incontro da solo, l’ultimo libro della mia adorata Elizabeth George, «Careless in Red»
Le domande – incredibile! – me le hanno fatte.
«È autobiografico?».
No.
«Ci sarà un sequel?».
Mozzi: «No».
Io: «Non so».
Ri-Mozzi: «No, non credo».
Ri-io (in chiave inutilmente possibilista): «Forse».
«I personaggi sono colleghi specifici?».
No.
«Cosa pensate della possibilità che ne venga tratto un film?».
Mozzi: «Sarebbe perfetto, ma ci vorrebbero attori bravi».
Io (spiritosona): «Dunque non ne sarà tratto nessun film!».
Mozzi: «No! È che ci vogliono attori veri».
«Allora, magari, a teatro?».
Mozzi: «Sarebbe bello».
Io: «…» (Continuo a preferire Hollywood, ma ho pensato che potevo tenermelo per me).
«Ci diceva sempre Miriam Mafai che questo e che quello. Ecco. Che differenza c’è tra il linguaggio dell’articolo e quello di un libro?».
Io: «Che il giornale dovrebbe riportare cose vere e il libro può occuparsi delle cose inventate».
«L’incompetenza è la chiave del giornalismo, ha detto» (Sì, porca paletta: l’avevo detto). «Anche Montanelli diceva che il giornalista è costretto a scrivere cose di cui non sa niente».
Io: «Abbastanza».
«Perché quella copertina?».
Mozzi: risposta lunga.
Io: «Sono d’accordo».
Più o meno, c’è tutto.
A parte che ho letto ad alta voce due passi del libro e che, leggendoli, ho pensato «ma sai che è carino?», che ho perfino firmato delle copie del libro (caratteri minuscoli per l’imbarazzo) e che tra il pubblico c’era Marco Bellotto, il quale mi ha detto che vorrebbe, gentilmente, la prova del fatto che ho effettivamente acquistato il suo ultimo libro.
Credo che gli manderò lo scontrino via fax.
Nella foto, come da didascalia, la scoppiettante sovreccitazione di mio figlio alla presentazione di ieri.
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