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una disperazione (de)ontologica
È in pdf, liberamente accessibile in Rete. L’ultimo suo aggiornamento risale all’aprile dell’anno scorso. È interessante. È il codice deontologico del quotidiano The Guardian.
La prima cosa che il documento chiarisce è che il valore a cui il giornale tributa la massima tutela è la credibilità.
Capisco che enunciare un principio non è la stessa cosa che metterlo in pratica, però ci sono parole che è anche bello leggere.
«Questo documento», viene detto subito dopo, «non fa parte del contratto di lavoro sottoscritto dai giornalisti, ma è chiaro che osservando questo codice di autoregolamentazione i giornalisti che lavorano al Guardian proteggono non solo il giornale ma anche la loro stessa indipendenza, la loro stessa stabilità e la loro stessa reputazione. La loro e quella dei colleghi».
Quest’affermazione implica una conseguenza a cui i giornalisti italiani temo potrebbero dedicare qualche attenzione in più: una figuraccia fatta individualmente da un giornalista non è un problema suo e di nessun altro, perché si riverbera sulla credibilità del giornale – e fin qui ci possiamo arrivare tutti – e anche sulla credibilità dei colleghi. In altre parole, se io combino un pasticcio per non avere rispettato le regole, sputtano anche i miei incolpevoli colleghi.
Il che dovrebbe render chiara l’esistenza di una convenienza – delle aziende, ma anche dei giornalisti – ad elevare complessivamente il livello professionale di un gruppo giornalistico.
Purtroppo, invece, riesce più conveniente premiare l’incapacità di pensiero critico e l’approssimazione professionale e deontologica quando non l’affiliazione alla propria cosca professionale o politica, perché incapacità, approssimazione e affiliazione sono caratteristiche che danno le garanzie che servono: cioè quelle relative all’acritico e silenzioso rispetto delle direttive, delle linee di orientamento politico, e delle necessità contingenti della propaganda che si decide di assecondare.
Un altro punto carino del codice del Guardian è quello che si riferisce alla possibilità che un intervistato ottenga dal giornalista una visione preventiva della sua intervista.
Questa pratica è purtroppo tremendamente diffusa nei giornali italiani, e con la noncuranza che si riserva a una cosa normalissima. Come se, in altre parole, un giornalista dovesse ottenere l’approvazione preventiva della sua fonte, e non bastassero gli strumenti di tutela ordinaria, come in primo luogo la professionalità del giornalista e in secondo luogo le querele e le citazioni in sede civile.
Vabbè. Non importa. Leggiamo.
«La regola generale è che non si debba riconoscere a nessuno il diritto di ottenere, per darne approvazione, il testo di un articolo. In alcune circostanze è accettabile consentire all’interlocutore di prendere visione di testi o di virgolettati, ma non è ammissibile che ci venga richiesto di alterare né gli uni né gli altri».
L’ultima cosa curiosa sulla quale voglio soffermarmi è quella relativa alle questioni di rilievo legale: «Le leggi», si legge sul codice, «sono complesse e in continua evoluzione, e le conseguenze di una sconfitta in un procedimento legale possono essere costose e dannose per la nostra reputazione. Lo staff, dunque, ha il compito di familiarizzarsi con le leggi vigenti e di cercare un aiuto professionale se ci sono aspetti sui quali non si sente abbastanza ferrato; è anche tenuto a consultare il nostro dipartimento legale interno» e «a leggere regolarmente il bollettino-notiziario sui casi ancora aperti, mandato a tutti via e-mail dal nostro ufficio legale».
In tutti i giornali in cui ho lavorato – e sono tanti – io non ho mai visto un ufficio legale interno.
Anzi, in linea generale, in Italia si pensa che affrontare i problemi relativi alle diffamazioni o ad altro tipo di illeciti o reati sia compito esclusivo del legale del sindacato dei giornalisti, e mica di un’azienda editoriale, che – sì – generalmente assiste attraverso avvocati esterni e convenzionati i suoi giornalisti in una vertenza che li oppone a terzi, ma non si occupa in alcun modo di fornire ai dipendenti regole al passo con il variare delle leggi e della giurisprudenza.
Le pagine sono 12, e io ne ho preso solo tre o quattro affermazioni. È una lettura interessante, lo giuro.
Ma intristisce.
Medito se continuare a fare sto lavoro. Spero che il futuro del giornalismo vero sia qui, in queste pagine del web. Dove non c’è censura…
Fac
Non so, Fac. Ma gastrointestinalmente – se mi passi l’avverbio un po’ così – credo che il web non basti, che sia una cosa completamente diversa dal giornalismo. Però spero di avere torto.