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uno straniero in tv che pesca nel mio passato
Quando, stasera, il Tg1 si è collegato con il quartiere di Roma in cui un gruppo di neonazisti ha attaccato con spranghe e bastoni alcuni negozi gestiti da persone straniere, la giornalista che conduceva l’esterna ha fatto parlare uno di quei commercianti. «Questa è la prima aggressione che avete subito?», gli ha chiesto porgendogli il microfono.
L’uomo le ha risposto più o meno che sì, era la prima volta, e che quest’aggressione, secondo lui, dipende dal fatto che l’avvento del nuovo governo ha cambiato il clima, rendendolo ostile agli stranieri.
In redazione, dove stavamo seguendo quelle parole, abbiamo sorriso tutti, contemporaneamente.
Quello che ci ha impressionato era la rapidità con la quale quell’uomo aveva colto l’opportunità di leggere gli eventi in una chiave di stampo – come dire? – «militante».
Credo di poter dire che la nostra reazione all’unisono implicava la tacita considerazione che quell’uomo straniero stava occupando con le sue parole uno spazio sociologico vuoto (quello dell’immigrato-arrabbiato-davanti-ai-microfoni-del-Tg1), e che lo stava facendo con spirito politicamente opportunista, avendone forse intuito qualche possibile vantaggio.
Come se l’argomento dell’uomo intervistato – peraltro rapidamente interrotto dal conduttore del Tg1, che s’è precipitosamente ripreso la linea – avesse un difetto di legittimità e di genuinità, insomma; una tara per così dire genetica.
E poi, però, ho riflettuto un po’ su quello che è successo, e ho realizzato che l’automatismo pregiudiziale in cui sono caduta non mi piace per niente.
Può anche essere vero, forse, che con la sua interpretazione quel signore straniero ha – chissà – forzato la realtà dei fatti; o che, avendo uno straniero meno pratica di un italiano nella decodifica delle cose italiane, simili posizioni possano più facilmente apparire il frutto di una sorta di «indottrinamento» a freddo.
Però.
Però, mi domando: che male c’è?
Se anche fosse così, che male ci sarebbe?
Che male c’è se uno straniero si stanca di sentirsi disprezzare, e prende per buona la chiave di lettura di quei pochi che non gli dimostrano disprezzo ma, al contrario, vicinanza e solidarietà?
Perché questa sarebbe una strumentalizzazione?
Non è a questo che dovrebbe servire la politica?
A raccogliere e ad amplificare la voce di chi non ha tribune da cui parlare?
A darle rappresentanza? A darle parole? Chiavi di lettura?
Tutto questo mi richiama alla memoria cose dense e lontane della mia vita.
Quando mio fratello era piccolo – mio fratello, nato sano, è handicappato per un incidente avvenuto nell’incubatrice – questa storia della strumentalizzazione la sentivo ripetere sempre.
Ah, come si arrabbiava mia madre.
Le dicevano, per esempio, che portando all’esterno, nella società della politica, la richiesta di inserimento scolastico dei bambini handicappati, lei stava consentendo alla politica di strumentalizzare la disabilità di mio fratello e dei piccoli come mio fratello.
Lei s’infuriava. Tentava di spiegare che la politica aveva il dovere di occuparsi di rivendicazioni come queste, che questo era il compito per cui la politica era stata inventata.
Che se la si tiene estranea dalle istanze dei gruppi sociali, i gruppi sociali finiscono per essere regolati dalle consuetudini feudali e dalle fedeltà di cosca, aperte a soprusi di ogni tipo, a “obliquità” di tutti i generi.
Non la capivano.
Si sgolava e non la capivano.
Ancora adesso non si capacita di come fosse possibile che gli altri genitori dell’associazione di cui lei e mio padre facevano parte potessero non capire la differenza fra strumentalizzazione e sostegno; fra mire opportunistiche, e normali – e sane – dinamiche sociali.
Io ero piccola, ma mi sembrava di capire il senso sentimentale e morale di tutto questo; non certo le parole. Ma avrei fatto qualunque cosa per aiutarla a capirsi con il mondo.
Lei è sempre stata fiduciosa; ha sempre creduto che, spiegandole con costanza e con passione, le cose potessero diventare chiare anche agli altri, e raccogliere intorno a sé il consenso degli altri; e che si potesse fare in modo che le singole persone diventassero un fiume, e poi un piccolo mare che poteva erodere un po’ di sabbia; quel po’ che bastava a rendere la vita e le aspettative di mio fratello più sincrone con la vita e con le aspettative degli altri a cui apparentemente non mancava niente.
Quanta strada, quante salite, quanta fatica. Me la ricordo bene.
Beh.
Lei ha perso malamente, su tutta la linea; e la consapevolezza della sconfitta ha segnato – indipendentemente dall’anagrafe – l’inizio di ciò che solo adesso, retrospettivamente, posso definire la sua «terza età», che poi è – penso – l’età della vita in cui le battaglie smettono di avere senso.
In quello straniero sulle cui parole ho pensato di sorridere c’è l’idea che le battaglie abbiano un senso, invece.
C’è l’energia di chi crede che sia possibile vincere; se non collettivamente, almeno singolarmente, come individuo.
Non c’era niente da ridere, ca***.
“la sua «terza età», che poi è – penso – l’età della vita in cui le battaglie smettono di avere senso.”
Perché? Mettiamo che uno entri nella terza età a sessant’anni, perché le battaglie non dovrebbero più aver senso? Deve solo aspettare la morte, occupandosi dei nipotini? E’ uscito dalla vita civile?
No, Bianca. Non volevo dire questo.
Dicevo esattamente il contrario: e cioè che quando si smette di pensare che le proprie battaglie abbiano un senso, allora comincia la terza età.
È l’inversione della convenzione a cui fai riferimento tu.
Parlavo di mia madre, poi; e dicevo che dal momento in cui s’è resa conto che le sue battaglie, quelle per cui ha speso una vita, non avevano senso perché non potevano più essere vinte, allora ha cominciato a sentirsi vecchia dentro.
E grazie d’aver commentato
Ah, ho capito. Grazie per la spiegazione (in effetti mi sembrava strano, nel contesto di quello che scrivi).
Son contenta di avere chiarito
Ciao