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angela’s ashes
Dici «poetico» e ti sembra inesatto.Dici «sublime» e ti sembra improprio.Dici ruvido, realistico, sarcastico, sporco, sorridente e disperato, e ti sembra ancora poco.
Io penso che Le ceneri di Angela di Frank McCourt sia un libro «tanto» che non è mai «troppo».
Non scade nell’oleografia, non fa giochetti, non dimentica mai che non possono esistere sentimenti di un solo colore. Se fossi religiosa direi che porta dentro il soffio della verità.
Del primo libro di McCourt (questo) – uscito nel 1996 quando lui aveva 62 anni, e vincitore del Pulitzer nel ’97 – ho letto un po’ dappertutto questo commento: fa ridere e fa piangere.
È verissimo. Ma lo fa con intensità delicata e straziante.
È un libro scomposto e maleducato che racconta una storia apparentemente estrema, e inadatta a chi si scandalizza facilmente dell’infinita varietà delle cose della vita. È un libro di sangue e merda da maneggiare con rispetto e gentilezza.
I personaggi – ovviamente veri, visto che McCourt racconta della sua infanzia a Limerick, in un’Irlanda così povera da farti venir voglia di mandare un aereo di carta a ricoprirla di petali di rosa per riverirla com’è giusto fare con la dea furiosa e disperata che lui ti descrive – sono così pieni, amati, rotondi, crudeli, elementari e complessi, silenziosi e sboccati che ognuno di loro è un libro in se stesso.
Quel padre assurdo (ma amato da Frank con sfiancante e spaventata intensità) che porta in giro una sua sublime idea di dignità a cui istante per istante la sua condotta contravviene con sbadatezza compulsiva.
Quella madre, Angela, che soffre così tanto da non perder nemmeno più tempo a pensarci; che fuma e fuma e fuma con la vicina come se avesse veramente il coraggio di fingere di abitare in un improbabile fotoromanzo; che si rassegna senza nessuna autentica rassegnazione; vede morire un figlio dopo l’altro; si piega urlando fierezza alla ferocia dei generosi figuri che gestiscono le donazioni ai poveri; che quando il piano terra della casa le si riempie di acqua piovana e di merda trasloca tutti al piano di sopra, ovvero «in Italia».
Fantastica (roba forte, alla Ken Loach dell’inarrivabile «Ladybird Ladybird») la scena del funzionario della beneficenza che per stabilire se Angela ha diritto all’elemosina si presenta all’ingresso di casa McCourt, ovviamente al piano terra, e si sente rispondere dai bambini che la mamma non c’è, è andata in Italia.
Il ragazzino epilettico che tutti prendono in giro e però, furbone, guida tutti verso la scoperta del sesso proibito; la bambina tisica in cui Frankie si perde su uno sfondato divano verde, disperandosi per aver consentito che per sua colpa lei morisse nel peccato; la carezza del frate che dopo mesi lo perdona; la vicina di letto in ospedale; i pub, gli ubriaconi, i poveri uomini che se ne vanno nell’odiata Inghilterra solo perché l’Inghilterra sta dalla parte dell’America e l’America non può sbagliare.
La tremenda nonna materna dal cuore rinsecchito (divinamente trash la scena che segue al momento in cui Frankie vomita in cortile la particola della sua prima comunione, quando la nonna si rivolge al parroco per capire come rimediare al sacrilegio), o lo «zio» che nel suo abbaino approfitta della vedovanza bianca di un’Angela diventata regina dell’ignavia.
E tutti, dal primo all’ultimo, all’improvviso capaci di trasformarsi in innocenti fottuti bastardi, assumendo l’identità del carnefice e della vittima (di se stessi più che degli altri, perfino) in un circolo perpetuamente in movimento.
Struggente, meraviglioso.
Come la settimana enigmistica, vanta moltissimi tentativi di imitazione, perché ha fissato i basic dell’«irlandesità», e chiunque dopo McCourt abbia voluto scrivere un memoir irlandese ha dovuto fare i conti con quei suoi basic.
Semplicemente fulminante l’incipit (in realtà, prima c’è un’altra frase): «Quando ripenso alla mia infanzia mi domando come diavolo ho fatto a sopravvivere. È stata, va da sé, un’infanzia miserabile; e d’altra parte in un’infanzia felice non c’è gusto. Ma peggio di una miserabile infanzia normale c’è solo una miserabile infanzia irlandese. E di ancora peggiore c’è solo una miserabile infanzia irlandese e cattolica».
D’altra parte, a chi gli chiede quale sia attualmente il suo rapporto con la Chiesa cattolica, McCourt – che un po’ l’America, dove si trasferì a 19 anni, e un po’ l’uso di mondo hanno reso un abile accalappiatore di folle – ancora risponde: «Beh, sì, il nostro è stato un rapporto difficile, ma tengo molto a far sapere al Papa che l’ho perdonato».
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