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01 – DCTB, i come e i perché
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Andavo a seguire una cosa – erano tanti anni fa – tornavo in redazione, e le domande-tipo erano queste: «Qual è la notizia? E quante righe ti servono?».
La prima volta che me lo sono sentita chiedere, mi pareva assolutamente impossibile essere in grado di dare la risposta giusta.
La notizia? In che senso? È veramente è possibile isolare un fatto puntiforme nel fluire continuo degli eventi? Perché poi a quel punto l’unica possibilità che hai è buttarla sul filosofico. Dentro di te, ovvio: mai più glielo dici in faccia, al caposervizio, che intorno alla tua testa frulla un turbine di punti interrogativi.
Le righe, poi. Quante potevano servirmene? Trenta? Ottanta? Quante righe contiene una pagina di giornale? E quante ne devi scalare per far spazio al titolo? Siccome ero sicura che la mia risposta sarebbe stata comunque sbagliata, mi aspettavo che da un momento all’altro qualcuno mi dicesse di andarmene, di tornare dopo che avessi studiato.
Alla fine, però, si impara. Quante righe vale una notizia (e a seconda delle redazioni vale in modo diverso) ma non solo: la cosa più bella è che se per esempio vale sessanta righe, quando sei arrivato alla cinquantanovesima hai effettivamente detto tutto quello che ti sembra essenziale far sapere al tuo lettore, e ti resta anche lo spazio per un «a capo» in più con cui dare aria al testo.
Dopo anni in cui il mio lavoro mi aveva insegnato che tutto quello che ero chiamata a scrivere erano cose vere, e generalmente in un numero di parole drammaticamente inferiore a quello che avrei voluto utilizzare; dopo anni in cui pensavo che non sarei mai stata in grado di fare un giretto fuori dalla realtà con le mie parole, di scrivere un dialogo o di creare un personaggio, perché la vita vera era già abbastanza impegnativa di per sé e non c’era nessun bisogno di inventarsene un’altra, una mattina (era marzo) mi è sembrato improvvisamente possibile, o forse perfino necessario.
Mi sono seduta al computer e quel che ne usciva assumeva riga dopo riga l’apparenza di una storia che aveva un suo perché, e la cosa bella era che chiudendo gli occhi vedevo Strippani andare dove intendeva andare lui, e la Lucini dire quello che voleva dire lei, apparentemente fregandosene di me. Agivano da soli, insomma. Come nella vecchia Casa delle libertà: facevano un po’ come cazzo gli pareva…
La storia mette in fila le vicende che seguono l’omicidio di Silvio Bruni, vicecaporedattore di un quotidiano locale che si chiama “la Gazzetta del mattino”. È un intreccio un po’ giallo, un po’ noir e un po’ anche rosa. Anzi: più che rosa, direi che potrebbe essere fucsia; sicuramente più parente – lontanino, eh – della chick-lit che di Liala.
L’omicidio mette in moto conseguenze di molti tipi e porta in luce cose rimaste in ombra: amori impossibili (il fucsia), ipotesi complottarde (il giallo), ma anche pezzi della realtà di un’immaginaria città di provincia, e grandezze e miserie di un’immaginaria redazione (il noir).
Io non sono mai stata il giudice più tenero di me stessa, ma questa storia mi piace.
Del libro si parla anche qua, qua, e qua.
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