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l’identità e lo statuto di uno scrittore
Qual è il legame – e intendo il legame vero – fra la scrittura e la vita?
È una domanda che mi faccio così spesso da ritrovarmi in fine – e anche in medias res, come forse risulta agli atti! – perfettamente istupidita.
Che relazione c’è fra quel che un essere umano decide di raccontare e la sua propria esperienza di vita?
sentirsi a posto
Ci sono persone che, scrivendo, ritengono di avere acquisito uno status. Anzi: rubo una parola al mio nuovo amico Demetrio Paolin, e lo chiamo «statuto».
In fondo, si tratta di sentirsi così sicuri di se stessi, così a posto, così fit, da riuscire a credere che – anche a dispetto di tutto, magari – si è diventati uno scrittore o una scrittrice.
l’identità
Definirsi per il tramite di una qualifica significa, per come la vedo io, darsi un’identità.
Sceglierne, fra le molte possibili, una che si immagina ci corrisponda.
Ma siamo noi, noi singoli che scriviamo, ad accreditarci come «scrittori» davanti ai nostri stessi occhi (e nella nostra pancia, direi), o lo «statuto» di scrittori ci arriva dall’esterno?
il riconoscimento e la voragine
Non pretendo di dire cose nuove, ma ho l’impressione che questo sia il problema del «riconoscimento» del mondo.
Cioè: uno può dirsi quanto vuole «wow, sono uno scrittore/una scrittrice», e può anche metterci in fondo una serie di punti esclamativi tanto lunga quanto la mutevole disposizione del suo animo tormentato (sennò che razza di prode scrittore è?) gli consente di concepirne.
Ma se manca il «riconoscimento» dello status, credo che l’apertura di una voragine emotiva e sentimentale sia inevitabile.
i «non-scrittori»
Io penso però che la stessa questione è affrontabile dall’altro capo.
Se uno o una non riconosce a se stesso l’identità di scrittore o di scrittrice, quell’uno o quall’una sono veramente un’altra cosa? Sono veramente «non scrittori»?
La propria resistenza all’assorbimento nel milieu, insomma, crea effettiva dis-appartenenza o no?
A questo io non so assolutamente rispondere, ma ci sto pensando.
«professione?». «oddio, non lo so»
Nel periodo in cui ho cominciato a collaborare con il primo quotidiano in cui ho lavorato – si chiamava «La Cronaca di Verona e della provincia» ed era un bel giornale, diretto da Paolo Pagliaro – dovevo rinnovare la carta d’identità (che non per caso si chiama così!); così sono andata all’anagrafe insieme a quello che poi è diventato mio marito (forse questa storia l’ho già raccontata sul blog, mi sa).
«Professione?», mi ha chiesto l’impiegata.
Oddio.
Io non sapevo che professione avevo.
un bel rebus
Non avevo contratto di lavoro.
Collaboravo e basta, benché lavorando anche oltre le dieci ore al giorno (davvero, non scherzo, lo giuro), ma non avevo nessun contratto.
Non ero nemmeno iscritta all’ordine dei giornalisti, ovviamente. Né come pubblicista né come praticante.
Però nello stesso tempo non potevo qualificarmi «studentessa»: lavoravo.
l’usurpazione di titoli
Marco – che di carattere non è così pratico come la circostanza lascerebbe pensare – mi disse: «Perché non dici che sei giornalista e la chiudiamo qua?».
«Perché è usurpazione di titoli», gli risposi, «e io non lo posso fare».
la cronista
L’impiegata sospese per un momento la pratica. Noi uscimmo e ci mettemmo a discutere.
Ne nacque una carta d’identità che mi faceva risultare «cronista», mestiere formalmente inesistente ma almeno da preferire a «reporter».
un’identità «negoziale»
Ne era uscito un compromesso, ovviamente.
E anche la mia identità era compromissoria, «negoziale».
A ripensarci adesso, a distanza di tanti anni, mi sembra assolutamente chiaro che dentro di me c’era la certezza che sarei diventata giornalista (altrimenti avrei potuto scegliere – che so – «disoccupata»), ma mi mancava il sigillo sociale. Che rispettavo a tal punto da non aver accettato di definirmi ciò che ancora il mondo non riconosceva fossi diventata.
il riconoscimento del mio mondo
La mia lunga battaglia per ottenere il praticantato, e poi l’accesso all’esame di Stato, e poi contratti di sostituzione dovunque si rendesse libero un posto per malattia-maternità-ferie-congedi straordinari, o contratti ex articolo 1 (cioè a pieno titolo) ovunque, praticamente dal Manzanarre al Reno, si aprisse un nuovo quotidiano; e poi l’epica guerra (mi si perdonerà un po’ di virile orgoglio) per cambiare ruolo, per passare al desk, ovvero al posto in cui si decide, si informa di sé un giornale (illusa, eh?), altro non sono state che il mio modo personale per ottenere il riconoscimento del mondo.
un’ex sfigata?
Cosa che mi risultava interessante – come dire? – anche perché faceva giustizia della mia storica sensazione di essere sfigata, immeritevole di qualunque cosa. Tipo che quando prendevo trenta o trenta e lode mi dicevo in silenzio «cazzo, li ho fregati anche questa volta».
corrispondenza
Sia come sia, il mondo (giornalistico, è ovvio) mi ha riconosciuto dapprima sua componente; e poi sua «dotata» componente.
Sicchè, fra l’identità che di me io percepivo e l’identità che di me comprendevo percepita all’esterno s’era creata corrispondenza. Anch’io, in effetti, mi consideravo dotata.
forte e invincibile
A quel punto, mi sono sentita forte, piena.
Creativa, capace di spostare le montagne, di lavorare per ore e ore e ore senza pausa, dimenticando di andare in bagno, perché quel che contava era che la «cronista negoziale» era diventata una caporedattrice di fatto e di diritto. Tutta proiettata all’esterno, al mondo, che sembrava mi amasse… Non so se era vero, ma di sicuro era bello.
la crisi
Per un bel po’ ha funzionato.
Poi – per dirne qui, semplifico i tempi e appiattisco il dolore – ha cominciato a non piacermi ciò che contribuivo a creare; l’idea di mondo che contribuivo a creare; la realtà inesistente che contribuivo a dipingere.
lo slittamento
Ognuno può avere le sue motivazioni per avvertire lo slittamento progressivo di una situazione; e la situazione (quella ambientale, ma anche quella personale) può anche effettivamente cambiare fino al punto da produrre uno slittamento effettivo, e non uno slittamento soltanto percepito. Ma questo non conta.
Quel che conta è che a un certo punto è completamente saltata la corrispondenza fra l’identità che sentivo di avere (che mi piaceva avere? Che ritenevo «equo» avere? Che mi gratificava avere?) e quella che mi veniva riconosciuta.
ho capito una cosa
Al di là del mio singolo problema – se così posso semplicisticamente compendiare una faccenda sulla quale non ho molta voglia di dilungarmi ora, giacché ci ho ho scritto un libro e ci ho costruito un blog, e Freud c’avrebbe qualcosa da dire ma vabbe’ – io mi sono definitivamente convinta di una cosa.
Questa.
il pezzo di mondo ci deve piacere!
Che per sentirsi definiti da un’identità che ci soddisfa non occorre solo il requisito di base, quello che prevede che quell’identità ci piaccia, ci parli di noi e ci faccia sentire a casa; ma anche – e forse perfino soprattutto – che ci piaccia, ci parli di noi e ci faccia sentire a casa il pezzo di mondo al quale abbiamo chiesto, auspicabilmente ottenendolo, il riconoscimento del nostro (fottuto, direi) statuto identitario, per dirla con Demetrio.
appartenenza e affetto
E questo – per come la vedo io – attiene all’appartenenza e all’affetto, che forse forse potrebbero perfino essere la stessa cosa, sebbene ciascuna bizzarramente operante, a volte, in direzioni l’una opposta all’altra.
i carpentieri
Non posso volermi sentire definito dall’identità di carpentiere – poniamo – se il mondo dei carpentieri non mi piace, non mi parla di me e non mi fa sentire a casa.
Né d’altra parte posso volermi sentire definito dall’identità di carpentiere se non stimo un numero di carpentieri sufficiente a farmi desiderare di essere confuso con loro, considerato parte del loro ambiente.
«la partita dei fichi si vince fuori casa»
Ora, una cosa cruciale.
A vent’anni, e pure a trenta, ha sicuramente un suo senso voler far parte – perché di questo si tratta, quando si parla di «riconoscimento» – di un mondo che non ci piace.
In quella direzione ci spinge un bisogno di affetto, una necessità di rivalsa, un’opaca e maschia consapevolezza che non si è abbastanza fichi se la nostra partita non la si va a vincere fuori casa.
voglio la stima di chi disistimo?
Ma una delle lezioni più serie che l’età adulta si è incaricata di impartire a me e a molti altri (credo), una di quelle scoperte che definiscono definitivamente (ma tu guarda la radice comune di queste due parole) la moralità di un essere umano è che la propria partita va giocata sul proprio terreno.
Detta in altri termini: non posso chiedere o volere la stima di una persona o di un ambiente che disistimo. So che allargando il campo agli «ambienti» la cosa è più ambigua, ma l’esperienza dei campi di gioco su cui si giocano le partite a cui si è lungamente partecipato rende possibili anche queste semplificazioni.
i sorpassi
O in altri termini ancora, visto che quando si parla di approvazione altrui si parla anche di competizione.
Quando guidavo (no: correvo) ogni giorno per ore su A4, A22, A27, A1, A14 (e statali varie, ma le statali non entrano nel contesto di cui voglio dire) per raggiungere i millantasettemila giornali in cui ho lavorato, mi capitava spesso di essere sorpassata da automobilisti che andavano più veloci di me.
l’autostrada
In queste situazioni mi nasceva una reazione istintiva di frustrazione.
Guidavo così tanto che avevo ahimé interiorizzato tutta la parametrazione maschile del viaggio autostradale; cose come sfrecciare come un proiettile in terza corsia sfanalando come un’ossessa, per dire (Ma la distanza di sicurezza, quella l’ho sempre tenuta. Questione di principio. E in autostrada non ho mai – dico m-a-i – frenato a meno che non fosse per evitare un’autentica catastrofe).
lo choc
Comunque, non divago.
Un giorno, vedendomi superare da un missile terra-terra che uscì dall’autostrada appena trecento metri dopo, tagliando tutte e tre le corsie dell’A4, un’elementare e formidabile dato di fatto mi colpì con l’intensità di una frustata.
il viaggio
Sì, mi dissi. Sull’autostrada Tizio sorpassa Caio e Caio sorpassa Sempronio, e tutti sorpassano te, che poi sorpassi Chissachì.
Ma solo tu – come ciascuno degli altri, ovviamente, ma per la tua pancia e per il tuo cuore questo è meno rilevante – sai qual è il casello nel quale sei entrato in autostrada, il casello attraverso il quale ne uscirai, e la destinazione auspicabile del tuo viaggio.
Solo tu conosci la tua strada, e quella strada è integralmente tua.
è tutto mio
Io so da dove vengo.
Cos’ho fatto.
Quanto ho investito nelle cose che ho fatto.
Quanta fatica, quante curve, salite, discese.
E nessuno può sottrarmi niente: è tutto mio e di nessun altro.
l’ambizione e il successo
E adesso, l’ultimo giro di giostra.
Quello sull’ambizione e sul «successo».
Mi sento di dire che sono due cose completamente differenti.
L’ambizione conduce di solito a desiderare il successo.
Ma bisognerebbe forse avere il coraggio di dire a se stessi che non tutti siamo in grado di definire il successo allo stesso modo. Che non a tutti interessa diventare presidente del Consiglio, o ricchissimi, o volti/corpi televisivi.
personaggi e prodotti
Per voler avere «successo» nel modo in cui correntemente il successo viene inteso – cioè più o meno come descritto due righe fa o giù di lì – bisogna essere in grado di accettare la percezione di sé come «personaggio» più che come persona; e di accettare che si sta vendendo se stessi e le proprie realizzazioni come un prodotto.
bisogna avere il fisico
Non c’è niente di male, in questo.
Ma per accettarlo o addirittura volerlo bisogna averne la capacità.
E se per caso considerarsi personaggio o prodotto sembra – a uno o a una – un fenomeno in scarsa relazione con la propria storia e con la propria vita, la cosa rischia di farsi seria, perché può trasformarsi nel gioco di una partita sul terreno altrui. Magari con giudici che non ci piacciono, e non ci dicono niente di noi.
così, secondo me…
Ne discende che io sono tutto sommato convinta che quelli che sentono il «sé-personaggio» e il «sé-prodotto» come cose in relazione con la propria vita e la propria storia siano persone a cui, in fondo, piace quel mondo e piacciono quei giudici.
Penso che buona parte della loro bravura professionale – lo dico con estrema serietà, e anche con stima – risieda qui.
finito
Ecco.
È più o meno quasi tutto quello che avevo da dire su questa cosa che mi tormenta.
Che post. Sono davvero emozionata, Federica. E’ questo, esattamente questo. Io sono approdata da pochi mesi nel mondo dell’editoria, e ho sbattuto il naso proprio sulla questione identitaria. Ho scelto di fare un passo indietro rispetto al testo, di non fare persentazioni e di lasciarlo camminare da solo proprio perchè non volevo che in alcun modo la persona sopraffacesse la narrazione. Mi rendo conto di chiedere la luna. Perchè la questione dello status sembra – ahimé- essere prioritaria rispetto a quel che si ha da dire.
Grazie per quello che hai scritto, davvero.
Cara Lara,
ho fatto il tuo stesso errore, se di errore è lecito parlare, ma non con la tua motivazione.
Io avevo paura (del «successo» per come l’ho definito nel post non meno che dell’«insuccesso» per come ognuno dei nostri cuori lo percepisce), e non riuscivo a vedermi – appunto – come scrittrice.
Non riuscivo a darmi il diritto di parlare di quel che avevo scritto come se si trattasse di un’opera letteraria.
Non avevo chiaro che definire il proprio lavoro un’opera letteraria non significa acquisire – o meglio: dichiarare di possedere – uno status d’eccellenza, per così dire; perché esistono opere letterarie belle e opere letterarie brutte e opere letterarie insomma e opere letterarie bah.
Cioè: dire a me stessa che avevo scritto un’opera letteraria era semplicemente la verità, ma non ero pronta a dirla, perché pensavo di poter dare l’impressione di volermene gloriare.
Il risultato è stato che quel che ho messo a rischio non è stato tanto il libro in sé – che la casa editrice è stata probabilmente in grado di mettere benissimo a rischio di per sé sola! – ma la mia identità.
C’è voluto tempo, c’è voluto lavoro. C’è voluto anche dolore. E mi viene perfino da vergognarmene, perché con tutti i problemi veri e seri che ci sono nella vita (anche nella mia, eh) scrivere che si è sofferto perché si è pubblicato un libro mi sembra veramente una cosa per la quale dovrei prendermi a schiaffi da sola.
Sta di fatto che adesso comincio a riuscire a dirmelo: ho scritto un’opera letteraria. Sono una scrittrice. Sono una giornalista.
Mi fa ancora effetto e faccio ancora fatica.
Ma presentare il libro qua e là – dopo non averlo fatto per oltre un anno, anche perché quelli che la sapevano lunga dicevano che le presentazioni non servono a vendere una copia in più, il che può essere, ma rinsaldarsi in sé non mi sembra un risultato seconddario; e perciò penso che chi me lo sconsigliava era tutto sommato solo uno stronzo, se non un bastardo invidioso – mi sta aiutando molto a capire, a entrare in relazione con altro e con altri.
Credimi, Lara: ha un suo perché.
Porta il tuo libro in giro con te. Parlane. lascia perdere chi ti dice – se c’è – che non serve a niente.
Vai, cammina.
Porta il tuo bambino di carta a conoscere il mondo.
È un tuo preciso dovere.
Verso di lui, certo. Ma anche verso di te.
Ciao, fatti viva
Grazie Federica. Ci penso, davvero.
Ps al mio commento: in realtà i «consigliatori», quelli che dicevano che le presentazioni non servivano, erano perlopiù femmine…
Osa, Lara!