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e se il problema fosse gestire la disperazione?
Sono appena passata dal blog di Nando dalla Chiesa e ho letto il suo grido a bassa voce.
Sento le sue parole come qualcosa che mi tocca molto nel profondo, per un sacco di motivi.
sinistra e sfiducia
Mi ricordo di una conversazione che non più tardi di un anno fa ebbi a casa di alcuni cari amici coi quali condivisi l’avventura – chissà perché mi viene sempre da chiamarla in questo modo – della Rete.
Eravamo seduti a pranzo, e il mio amico Pietro – solida figura di uomo realista e distaccato, di quel distacco che a volte può anche apparire un triste e desolato cinismo – disse che non gli piaceva la disperazione che riscontrava in molte persone della cosiddetta – per semplificare – sinistra.
ci si può credere
«Mi piace», disse, «il blog di Nando dalla Chiesa perché là lui racconta tutte le cose belle che ancora succedono in Italia; elenca le ragioni di speranza. Dimostra che da qualche parte si può ancora partire. Che ci si può credere».
Di Nando, Pietro è stato compagno di scuola; e ne parla con la tenerezza con cui più o meno ne parliamo tutti noi che – chi più, chi meno – abbiamo avuto a che fare con lui.
un po’ d’incertezza
Io ero incerta se credere o no a questa professione di fiducia.
C’è stato un momento, nella mia vita, a partire dal quale ho cominciato a pensare che la fiducia è un privilegio che viene più facile concedersi quando si ha la facoltà di pensare che qualunque cosa accada per noi c’è una via di scampo: perché siamo ricchi, perché siamo inseriti in un reticolo di relazioni di potere, o perché – magari – non abbiamo niente da perdere.
minimi titani
Ma quest’idea mi ha sempre fatto sentire un po’ in colpa, nonostante il fatto che ne abbia misurato l’efficacia su me stessa e sulla mia storia.
Intendo dire che mi è risultato assolutamente chiaro che se sei un outsider la profondità delle motivazioni, la passione, la competenza, la dedizione e l’accanimento, perfino, non servono assolutamente a niente; e ciononostante, una parte di me ha sempre voluto credere che se veramente vuoi, puoi.
Un residuo di titanismo (argomento di molto lavoro; fatto sia su di me, sia sulla vera vittima dello scontro fra onnipotenza e impotenza, ovvero il «possibile»).
ok, parlo di me
Ho cercato di fare la giornalista – e alla fine ci sono anche riuscita, questo è vero – pensando a mio fratello e alla storia della mia famiglia, che era poi ciò che – non per obiettivi individuali, è ovvio – mi aveva condotto anche alla breve stagione dell’attività politica.
Sono diventata giornalista pensando al fatto che mio fratello poteva parlare solo attraverso qualcun altro.
Ho pensato che scrivendo potevo rendere giustizia a lui e agli altri che come lui non trovavano buchi per passare.
Sono sicura che è un intento ingenuo; ma era questo, e non posso farci niente.
buchi sigillati
Poi, a poco a poco, ho scoperto che da un giornale io non potevo far niente per lui. Che il potere – chiamiamolo così – era incommensurabilmente più forte di me, di lui, e di tutta l’energia instancabile che potevo metterci.
Che non avevo la benché minima possibilità di allargare – per rimanere nella metafora di prima – nessun buco per far uscire alcunché.
un vero disastro
Magari ho sbagliato tattiche e strategia, per carità.
Forse, a cambiar tattiche e strategia avrei trovato buchi diversi da quelli che cercavo.
Ma anche a pensare di aver sbagliato tutto, il risultato, comunque, era davanti a me: un disastro da cui non si poteva tornare indietro; il paesaggio era cambiato, e gli orizzonti professionali completamente diversi.
inutile e dannoso
Ho scoperto che il mio lavoro non è utile a chi non ha voce, ma serve solo ed esclusivamente a chi di voce ne ha già tantissima.
I tuoi no – per semplificare: perchè un no non è tutto; bisogna far la fatica di parlare, di spiegare, di organizzare battaglie in campo aperto, di cercare lealmente alleanze… – possono essere dieci, e cento, o anche mille; non ottieni niente lo stesso.
in realtà va così
Ti schiacciano.
Ti pestano.
Irridono al tuo idealismo naif.
Tu che non capisci quanto siano infinitamente più avanti tutti coloro che del giornalismo hanno fatto un uso diverso; quelli che al giornalismo hanno chiesto in regalo un privilegio, e l’hanno anche ottenuto.
nascondere è creare
Tu lì, a credere che il tuo lavoro sarebbe un altro. A credere che dovresti in fondo limitarti a far uscire pezzi di realtà, a non nascondere le cose.
E invece no.
Devi nascondere, ricreare realtà inesistenti e alternative.
Fingere di credere che sia così, che il mondo vero sia quello.
Perchè se per caso dici che il re è nudo non c’è nessun bambino che dice «è vero!», ma solo adulti che fingono di non averti sentito, in attesa di poterti colpire più avanti. Di soppiatto o con clamore, a seconda della loro convenienza.
un’altra realtà è possibile
Fino a quando non ti rendi improvvisamente conto che il mondo che ti pareva virtuale adesso esiste, ed esiste perché tu (magari non proprio tu in persona, d’accordo) e quelli come te avete effettivamente creato un’altra realtà.
e le parole son cambiate di segno
Una realtà in cui le parole hanno cambiato senso.
Merito, razionalizzazione, scontro, polemica, ideologia, dialogo, politica, istituzioni, semplificazione, efficienza, sistema, squadra, produttività, sprechi, rilancio, famiglia, irregolari, emergenza, allarme, leader, premier, governatore, buon senso, duello, ultimatum, attacco, ferma condanna, bufera, moderati, presidente, coalizione, agguato, guerra…
i risultati di uno sporco lavoro
Tutte parole che significavano un’altra cosa e tu giornalista hai accettato di piegare ad altri significati.
Perché ti serviva lo stipendio; perché il tuo no è stato debole; perché hai smesso di dire no quando ti sei reso conto che non potevi vincere la guerra e dunque conveniva almeno salvarsi; perché hai perso troppe battaglie; perchè volevi finalmente goderti la tua vita e i tuoi amori; o perché – semplicemente – eri servo dentro…
ricattabili o servi?
Ce ne sono, di servi dentro. Proprio tanti.
C’è un luogo comune, ad esempio, nel sindacato giornalisti: quello che i collaboratori dei giornali – i colleghi che non sono assunti in qualità di dipendenti, per essere chiari – debbano essere «regolarizzati» perché sennò sono ricattabili.
«ma noi siamo solo dei poverini!»
Ne ho parlato spesso con colleghi collaboratori.
Molti di loro credono davvero di essere ricattabili perché non hanno un posto di lavoro a tempo indeterminato.
le minacce
Ma io penso che nella vita c’è sempre qualcosa di cui qualcuno più potente di te può minacciarti la sottrazione.
Quando non hai un contratto – è vero – possono dirti che se rompi le palle non scrivi più.
Ma quando ce l’hai possono minacciarti della perdita di moltissime cose.
Forse non del posto di lavoro (e anche questo è da vedere): ma di altre cose sì, eccome!
la mia ipotesi
È per questo che io sono del parere che la capacità di dire di no a chi ha più potere di te e ti vuole strumentalizzare non sia in relazione se non minima con le condizioni oggettive in cui ti trovi (a meno che non ci sia in ballo la vita stessa, ovviamente; o la sopravvivenza fisica dei tuoi figli, se ne hai), ma dipenda invece in modo immediato e diretto dal tasso di servilismo che c’è dentro di te.
defilata
Per tornare a Nando.
Mi sembra di poter capire la sua «disperazione» (mi rendo conto che la parola può essere impropria) per aver vissuto qualcosa che mi sembra simile. Certo: l’ho vissuta da una posizione molto più defilata rispetto alla sua; alle prese con responsabilità inferiori (e poi è da vedere se un cittadino giornalista abbia meno responsabilità di un cittadino politico, ma vabbè).
il fuoco
Ognuno ha il suo fuoco che gli arde dentro.
Spegnerlo, o assistere al suo spegnimento coatto, è molto doloroso.
Però, Nando, devo farti una domanda.
Non posso evitarlo.
«nessuna illusione, mai più»
«”Stasera la mia partita con la vita è finita”, scrivi parlando di te in terza persona perché stai raccontando una storia, e una storia dolorosa; «”e ho perso”, comunicò alla moglie. Una sconfitta chiara, senza attenuanti. Questo è l’ultimo libro che scrivo, aggiunse. E le spiegò, senza che lei riuscisse a trovare contro-argomentazioni convincenti: il messaggio è stato chiaro. Nessuna illusione, mai più».
le speranze
Nando, dimmi: come hai potuto essere «ottimista» (e perdonami l’improprietà dell’aggettivo, esagerato, fuori misura, ellittico)?
Come hai potuto – senza volerlo, è chiaro – farmi sentire colpevole per il fatto di aver perso le speranze, e di starci male, per poi perderle anche tu adesso?
il vetro
È una domanda senza senso, va bene.
Sono disposta ad accettare un’obiezione come questa.
Probabilmente coloro che «sperano» e quelli che «disperano» si trovano davanti allo stesso vetro, uno di qua e uno di là.
O forse non si spera mai del tutto, e mai del tutto si dispera.
O forse l’unica possibilità di non sentirsi sconfitti è vincere, e vincere significa avere potere, e noi non siamo in grado – okay: parlo per me – di gestire il potere perché dentro di noi un pezzo di anima è rimasta saldamente in possesso di Fabrizio De Andrè e del suo «non ci sono poteri buoni».
niente santori e niente dandine
Ma a furia di cercare di farsi carico delle speranze, quanta gente è stata lasciata nella disperazione, Nando?
Quanta gente?
A credere che ormai non c’è più niente da fare?
Quante persone contro cui – per citarti – Santoro e la Dandini non hanno mai decretato l’ostracismo semplicemente per il fatto che non sono mai state minimamente in relazione né con l’uno né con l’altra?
dove l’hai lasciata la gente disperata?
Credo di sapere – perdonami l’intrusione – con quanta profondità credi in quel che fai; credo di sapere quanta verità c’è.
Ma davvero, Nando. A furia di cercare di farti carico delle speranze, dove l’hai lasciata, la gente disperata?
Dove l’hai lasciata la gente che le cose che tu hai detto a tua moglie davanti al frigo di casa le ha dette a se stessa, ai suoi, allo specchio, o anche a nessuno, anni fa, sentendosi abbandonata?
Pensavi veramente che la tua speranza bastasse a dar speranza anche a loro?
gestire la speranza…
Non so.
Tu hai riaperto il blog. E dici che continuerai a girare per l’Italia, sia pure concedendoti qualche settimana di riposo in più.
Ma credi davvero che ci sia un modo per gestire la speranza, Nando?
… o la disperazione?
O non è il caso che cominciamo a porci il problema, un po’ tutti noi che ci abbiamo creduto, di gestire la disperazione? E di gestirla senza che questo significhi – per chi ce l’ha – il ritorno nel bozzolo del privilegio?
grazie per quello che hai scritto. mi sembra che questo sia il problema cruciale per la ricostruzione di una qualunque sinistra. evitando i tanti possibili ottimisti della volontà che girano la testa dall’altra parte per non vedere. permettiamoci finalmente la disperazione, nel senso che dici tu, e vedremo meglio dentro di noi.
Grazie a te, Giap.
Mi pare di vederti passare per la prima volta, ma potrei sbagliarmi (sai com’è: dispèrati oggi, dispèrati domani…).
Se è così, benvenuto.
Sennò, scusami per la confusione che faccio.
Ciao
Trovo questa tua riflessione potentissima. Ho seguito poco Dalla Chiesa: non mi esprimo sul suo pezzo e sugli interrogativi che poni a lui.
Mi ha colpito che cogli un problema secondo me fondamentale quando dici che le parole hanno cambiato significato. Sono anch’io convinta che quello dell’informazione (e del linguaggio e della cultura) sia un nodo cruciale per una società.
Il monopolio dell’informazione e l’importanza riconosciuta alle tecniche della propaganda sono stati aspetti tipici delle dittature fascista e nazista.
Certo, il ruolo dei giornalisti non va sottovalutato; la propensione al servilismo che, come dici tu, è diffuso a molti livelli fa il gioco del potere (e sono anch’io dell’idea che «non ci sono poteri buoni»), ma secondo me non si può chiedere ai giornalisti un eroismo individuale quando chi avrebbe dovuto colpire il conflitto di interessi ha preferito non scalfire l’imperatore. Personalmente sono arrabbiata con la nostra opposizione “di governo”, cioè “di sua pertinenza, a lui gradita” come dice un mio amico, che non si oppone per nulla sulle questioni cruciali.
Provo un forte senso di impotenza, ma penso che lavorare nella direzione di ridare senso alle parole (e tu sai usarle con grandissima intelligenza e lucidità) possa essere un’arma importante di ricostruzione delle coscienze: se al momento il giornalismo è immobilizzato da un monopolio monolitico, forse qualche spiraglio può esserci per la letteratura… Mi illudo che i nostri figli si nutrano di parole significative…
Un abbraccio e grazie