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tutti uguali. a loro
Possono chiamarle «classi ponte» oppure «classi di inserimento»; credere che l’apparente cautela delle parole possa cambiare la realtà del rifiuto che esse sottendono; perfino fingere di credere che lo stanno facendo per il bene di coloro che vogliono tenere il più possibile lontano dai diritti di chiunque altro, ammesso che della parola «diritto» possano concepire un’idea che non abbia qualcosa a che vedere col denaro.
Possono dire quel che vogliono, ma in queste classi in cui accumulare bambini e ragazzi stranieri c’è un’idea che dice che per questi ministri – questi uomini e queste donne che sembrano vissuti in pentola a pressione fino all’altro ieri – nelle nostre classi «normali» c’è un tempo «normale» da dedicare alle cose «normali» di modo che a fine anno si siano svolti i programmi «normali» senza disturbi e senza rallentamenti.
Come se nient’altro fosse almeno altrettanto importante.
A parte che mi domando quanto manca al ripristino delle scuole speciali e delle classi differenziali per gli handicappati (per il loro bene, naturalmente, mica per levarli dai piedi della scuola, e soprattutto re-istituite dopo una discussione di sei minuti e mezzo, perché tutto quel che serviva a poter decidere in assenza di contestazioni significative è già stato fatto ben prima, e al di fuori dei luoghi della politica), quello che vorrei sapere da questi uomini e da queste donne è se per loro la relazione con l’altro diverso da sé abbia un senso.
Vogliono incontrare solo persone il più possibile simili a loro, «uguali», irreggimentate con le stesse regole d’ingaggio, con le stesse aspirazioni (soldi, casa, vacanze, tv al plasma…).
Non riescono nemmeno a pensare che ha senso scoprire nelle persone ciò che le persone sono, perché nelle persone vogliono solo vedere riflessi se stessi.
E sono autoritari, risoluti: tu non c’entri, via. Un decreto veloce, discusso in quattro minuti o cinque.
A loro piace un mondo di bossini di berlusconini di gelminini di carfagnini di prestigiacomini di brunettini di tremontini.
E questa la cosa che mi fa più impressione.
Quest’anno, il primo giorno di scuola, in classe di mia figlia è arrivata una nuova alunna. Dalla Romania. Non sapeva neanche una parola di italiano. Il primo giorno almeno.
Le maestre si sono fatte aiutare da un altro alunno, di origini rumene.
I bambini si sono aiutati tra loro. Ho chiesto a mia figlia e lei mi ha riferito che hanno subito cominciato a giocare insieme e imparare a capirsi è stato parte del gioco. Mi ha anche detto che sperava che fossero compagne di banco: “sai papà per lei è difficile, in classe per lei siamo tutti nuovi”.
Te lo scrivo per avere un motivo per non perdere completamente la speranza.
Grazie, Andrea. È un bel pensiero.
Nella classe di mio figlio i bambini danno dell’assassino a un compagno romeno; le madri implorano le maestre che impongano ai bambini di non dire le parolacce; le maestre considerano «bullismo» le cretinate da bambini.
…
…tra le cose belle del mondo presente c’era la prospettiva di mandare Totila a scuola con bambini i cui genitori (ed a volte loro stessi) erano nati altrove. Ecco non rimane che andarsene per rimanere normali, ossia diversi!
L’attrazione per l’altrove è irresistibile, veramente.
Un misto di malinconia e di bisogno di ricominciare.
A puntino l’esempio. In un italia anni 60 in cui il “diverso” era colui che veniva da un’altra regione. Invece ora si deve studiare l’inglese senno non saremo mai cittadini del mondo e poi abbiamo paura di metabolizzare la diversità.
Sere fa ho ascoltato il commento di Margherita Hack, su questa ennesima scempiaggine: e concordo con lei che la vera integrazione la si fa dal vivo, con il confronto diretto – guidato ed oservato, ovviamente – dei bimbi che vengon da lontano con quelli “nostri”…
Ogni diversa maniera non può che puzzare di emarginazione, e da lontano un miglio…!
Guido